La prima impressione è di sgomento. Poi subentrano rabbia e incomprensione. Finito il film tutto pare saturo di realtà, così come di finzione. Non può essere vero – ci si dice. Ma ben presto anche quest’ultima illusione cade, e ciò che resta tra le mani è la “tragedia”. La strage è quella di Columbine, già oggetto del documentario di Michael Moore, Bowling for Columbine, il film è Elephant, di Gus Van Sant (Palma d’oro a Cannes 2003).
All’inizio è descritto un giorno di scuola qualsiasi, i ragazzi sembrano tranquilli: gli esempi di disagio non mancano, da chi ha un padre alcolizzato a chi soffre di anoressia, ma tutto è presentato con una tale naturalezza che il dramma non si percepisce.
Nathan e Carrie sono la coppia della scuola, Elias fotografa qualsiasi cosa nell’attesa di pubblicare un suo portfolio, e Michelle lotta ogni giorno con il suo aspetto fisico, sognando una vita diversa. Tutto appare normale dunque, anche grazie all’assenza di musiche roboanti e all’utilizzo di molti piani sequenza che seguono i personaggi passo passo, nelle loro faccende. Si incomincia ad avvertire il disagio quando Van Sant rompe l’illusione di realtà, ripetendo le riprese con soggettive diverse, a seconda del personaggio, e ricorrendo a con un teleobbiettivo esasperato, che sfuma tutto il resto. Il risultato è un vagare senza meta, che il regista fa provare allo spettatore, sottolineato dalle melodie in sottofondo, sempre cupe che rimandano a una dimensione oltre il reale. Ed ecco che la cinepresa inquadra Alex ed Eric: i due ragazzi sono riusciti facilmente a comperare, via internet, due fucili e delle munizioni, e la mattina della sparatoria attendono il pacco che li conterrà. Il loro piano è ben strutturato, comprese mappe e soluzioni alternative.
Di colpo si torna a scuola, in mensa, dove tre ragazze anoressiche discutono sul fatto che una di loro non passi tempo sufficiente con le amiche. I dialoghi che si sentono sono simili a quelli dei teenmovies americani.
Questi adolescenti in realtà parlano, ma non comunicano, e tra di loro ci sono più silenzi che parole. Ciò che conta è l’aspetto esteriore: le ragazze sono “costrette” a vestirsi con hot pants da supermodelle, e chi si sente a disagio deve a soffocare la sua pena, trattenere ogni lacrima, fino a che non si azionerà la follia. Non c’è più spazio per la ragione, né per il sentimento: tutto è fortemente banalizzato. Il “Per Elisa” di L.V. Beethoven è “figo” allo stesso modo dei fucili, e persino il nazismo è visto solo come un “qualcosa accaduto in Germania tempo fa”. A scuola ci si prende gioco di tutto e tutti; non esistono punti di riferimento; i genitori non hanno alcun ruolo educativo, non sono consapevoli della loro funzione: risultano illusi burattini nelle mani dei figli.
L’insegnamento arriva allora da altri mezzi, in primo luogo dalla televisione, che, però, pare infondere soprattutto messaggi di guerra; a tal punto che Alex e Eric architettano il loro piano come una guerra.
Le nuvole che ci avevano accolto all’inizio si addensano, peannunciano il temporale. E infatti le sequenze successive sono quelle dell’uccisione vera e propria. In questa fase colpiscono espressioni come: “Oggi ci si deve divertire, tu hai il tuo bel fucile”… Affiora il ricordo di Full Metal Jacket: il rapporto con l’arma e l’atmosfera che si crea sono gli stessi del film di Kubrick.
Inconsapevoli della loro identità e delle loro azioni, spettatori di un “film di vita”, carnefici e vittime si guardano vivere e morire senza alcun moto dell’anima. Indifferenza, superficialità, incoerenza…
Questo importante film di Van Sant ci suggerisce, implicitamente, l’idea un mondo sull’orlo del collasso, vittima di una società che non “coltiva” i propri membri. Infatti, allo stesso modo del gruppetto di ciechi che non è in grado analizzando una parte del corpo di un elefante (da qui il titolo) di riconoscere l’animale, la società occidentale si trova di fronte a un problema non riesce neppure a comprendere. Nel riempire i vuoti di Tecnica pare non sia rimasto spazio per l’Uomo.