Elephant Man: il volto oltre lo schermo dell’apparenza

Ad aprile nei teatri veneti

“La storia di Joseph Merrick è in fondo la storia della nostra ipocrisia, di un proverbiale rifiuto ad accettare l’altro da noi, per rinchiuderci in un rassicurante e inutile culto della bellezza omologata”. Le parole di Giancarlo Marinelli raccontano “Elephant Man”, una pièce originale sul nascondiglio dell’umanità, la dignità e il dolore, scritta e diretta ispirandosi all’omonimo racconto di Frederick Treves, da cui David Lynch trasse il suo capolavoro cinematografico.

Lo spettacolo, patrocinato dalla Regione del Veneto, sarà rappresentato il 3 aprile al Teatro Farinelli di Este, il 4 al Sociale di Cittadella, e dal 5 al 7 al Comunale di Treviso. Il regista mette in scena la storia vera di un giovane, brillante e ambizioso chirurgo, Frederick Treves, che nella Londra di fine ‘800 salvò l’Uomo Elefante, al secolo Joseph Merrick, dalle torture dei freak show, i baracconi in cui gli esseri deformi erano costretti a far mostra di se stessi.

L’amicizia tra Treves e il “mostro apparente”, affetto dalla Sindrome di Proteo, che gli deturpava il volto, si contestualizza nell’ossessione attuale di un’ estetica del corpo costruita sul culto della bellezza, deleteria per i danni causati dalla chirurgia estetica e da malattie come bulimia e anoressia. Merrick è un “fenomeno da baraccone”, un’attrazione del luna park o del Vanity Fair, che smaschera l’ipocrisia della società dell’immagine. Lo spettacolo affronta il dilemma antico tra l’essere e l’apparire, dal pensiero greco della bellezza agli archetipi della fiaba, il mito dell’eterna giovinezza e della ricerca della fasulla perfezione, l’oscena ostentazione artificiale che conduce all’annullamento dell’identità.

Daniele Liotti, attore del piccolo e grande schermo, riporta in vita le malformazioni della maschera mostruosa, realizzata da Stefano Stivaletti. Il profilo di Deborah Caprioglio, nel ruolo della moglie del Dottor Treves (interpretato da Rosario Coppolino), traduce con grazia l’ emozione di un amore, che si dimostra pubblicamente nella possibilità di curare l’altro, effondendo leggerezza, eleganza e un peculiare umorismo di matrice britannica alla scenografia realista di fine Ottocento. Sul palcoscenico anche la sensibilità drammatica di un’attrice come Ivana Monti.

L’autore Marinelli aderisce a una drammaturgia del dolore, a una scrittura performativa che esplora la mostruosità dei nostri luoghi oscuri, i valori esistenziali del tema identitario, e traduce la problematica dell’accettazione sociale in un urlo contro l’ossessione fisica. Uno spettacolo mimetico che esprime la tensione dell’uomo a essere amato per ciò che avrebbe voluto essere, un tentativo poetico di sovvertire il putrido sistema di vuote apparenze.