Volevano stupirci con effetti speciali, ma non ci sono riusciti. O almeno, non del tutto. Sono i Momix, la compagnia di ballerini-illusionisti fondata e diretta dallo statunitense Moses Pendleton, tornati in Italia per due sole tappe dello spettacolo già in tournée nell’ormai lontano 2009: Bothanica . Appena passati per il Teatro Carlo Gesualdo di Avellino, sono diretti al Verdi di Salerno, e hanno registrato il tutto esaurito con adesioni anche extra-regione. Che poi tale sold out non sia stato meritato, è un altro discorso, ma ormai i Momix sono come la Coca-Cola: si vendono da soli.
-Talmente tanto è il fervore sollevato da chi ha visto qualche video in Internet (sapientemente “tagliato” nei punti giusti) o le foto (che ritraggono ad hoc quel poco che ancora riesce a stupire), che il grande evento è bello e servito. Il tutto a dispetto di compagnie italiane di gran lunga superiori per qualità e originalità, che invece faticano a trovare un loro posto nel mondo o che semplicemente al grande pubblico sono ancora misconosciute (leggi: Emiliano Pellisari e i suoi lavori sulla Divina Commedia).
-Perché tanta delusione? È presto detto. Come sopra citato, i Momix vengono definiti ballerini-illusionisti. Oppure, ballerini-acrobati. Bene, in Bothanica, di “ballerino” non s’è visto quasi niente. Belle schiene per carità, ma il resto? Non una coreografia che si potesse definire tale. Slide (allungamenti con i piedi), Chaîné (giri su entrambe le mezze punte) e controtempi con scambi di peso: ecco riassunti tutti i pezzi danzati. Un po’ pochino per due ore di spettacolo.
-Allora uno si aspetta le acrobazie, le illusioni. Macché! Scoperto il trucco (uno specchio, un filo, un costume particolare) il resto erano noiosissimi minuti da far passare sperando che il pezzo successivo fosse migliore.
Un lavoro di costumistica scenografica superbo, buttato alle ortiche da una totale mancanza di originalità coreografica. Davvero una gabbia di metallo leggero che diventava una ruota “volante” al collo di una ragazza, non poteva essere sfruttata diversamente dal far roteare la danzatrice su se stessa (poverina…) per almeno 2 minuti (o forse più)? Veramente i costumi-fiori non davano altro sbocco creativo che farsi schiudere e scivolare poi lungo i corpi diventando delle gonne da flamenco? E l’unica funzione di un immensa, altissima, vela bianca sistemata sulla schiena di un altro sacrificato danzatore , doveva essere limitata a quella di “schermo” per un proiettore di fotografie della natura?
-Io ai Momix chiedevo di più. Non il classico gioco di pezzi del corpo fluorescenti, che spiccano perché il costume del ballerino è nero. È un trucco vecchio che può lasciare a bocca aperta solo i bambini o chi non abbia mai messo piede in un teatro. Forse, fossero stati più di dieci, l’impatto almeno dei costumi sarebbe stato diverso, più suggestivo.
Tutto da buttare? No. Ma tutto da migliorare. I pezzi che mostrano un po’ d’originalità (le danzatrici che “sorgono” dalle onde bianche” infilandosi sapientemente tra le pieghe, ad esempio) dovrebbero essere arricchiti, e non fatti solo “assaggiare”. Mentre quelli visti e stravisti, andrebbero eliminati, sostituiti, o quantomeno aumentati di difficoltà coreografica (come la danzatrice che usa una pedana obliqua completamente di superficie a specchio, creando l’illusione ottica del doppio, ma altro non fa che rotolarvisi o ripetere poche sequenze per quattro volte ognuna).
-Ma queste sono solo le idee di chi per Moses Pendleton nemmeno esiste e lui, come la Coca-Cola, continuerà a vendersi senza nemmeno bisogno di tutta questa pubblicità. Intanto l’originalità e il talento nascono, crescono e si sviluppano nei teatri off o nelle piccole sale di periferia, aspettando il loro momento, mentre noi siamo da sempre il paese del “fumo senza arrosto”, dove i cinepanettoni sbancano in quattro sale per cinema e il film evento dell’anno, fresco di 5 Oscar, solo perché muto e in bianco e nero (The Artist, ndr) al massimo trova casa in qualche cineforum, e per un solo giorno.
-E la colpa non è (soltanto) dei direttori artistici, dei produttori, dei pubblicitari: loro danno alla gente ciò che la gente chiede. La colpa è del pubblico: pieno di pregiudizi (nel bene o nel male), che si ferma alla superficie delle cose e che, siccome non viene educato dal sistema, non si “auto-educa” a scavare e a cercare, e si accontenta di ciò che “va” perché è già conosciuto. Finché qualcuno non scoprirà altro per conto loro, e tutti saranno pronti a spellarsi le mani per gli applausi.