Per le strade di Vienna risuonano ormai gli inni nazisti e gli ebrei hanno già chiaro il destino che li attende. Un Sigmund Freud ormai vecchio e malato discute con la figlia Anna se lasciare la città. Mentre un giovane sottufficiale tedesco lo ricatta per impossessarsi dei suoi beni, qualcuno si intrufola nella sua casa. Dice di essere Dio ma potrebbe essere un pazzo fuggito dal manicomio. Tra il misterioso visitatore e il padrone di casa si sviluppa così un dialogo che ha per oggetto proprio Dio e la fede: credere in Dio è una rinuncia alle facoltà razionali dell’uomo ed è una scelta in palese contraddizione con la presenza del male, così evidente nella Vienna di quei giorni? Oppure, al contrario, è proprio il rifiuto di Dio, la pretesa dell’uomo di sostituirsi a Dio che è all’origine dei drammi e degli orrori del Novecento? La pièce, che non scioglie il mistero sull’identità del visitatore, si conclude sul dubbio intorno a tali domande.
La trovata di partenza della pièce (che in Italia era già stata portata in scena da Turi Ferro e Kim Rossi Stuart con la regia di Antonio Calenda) è molto stuzzicante, anche se poi il testo non mi pare riesca ad essere profondo quanto ambirebbe: le posizioni che i due personaggi portano avanti sono tutto sommato scontate, già iscritte nei loro rispettivi caratteri e nella conoscenza che lo spettatore medio ha di loro fin dall’inizio. Schmitt, molto abilmente, ama prendere spunto dalle questioni filosofiche fondamentali, ma in altri suoi lavori (penso, ad esempio, al romanzo La setta degli egoisti) aveva saputo mescolare le carte con maggiore fantasia riuscendo a creare sviluppi più sorprendenti e inaspettati.
Malgrado questo, però, Il visitatore non manca certo di ritmo e ha alcuni momenti in cui il contrasto drammatico riesce ad essere comunque coinvolgente. Ed è inoltre una formidabile sfida per i suoi protagonisti. In questa messa in scena, Alessandro Haber accentua (molto più di Turi Ferro) i tremori e le incertezze fisiche di Freud ma afferma in modo altrettanto perentorio la volontà dell’uomo di non cercare consolazioni nella fede e di far conto unicamente sulla propria razionalità. Alessio Boni – diversamente dall’azzimato visitatore di Kim Rossi Stuart – fa del suo personaggio una sorta di fool shakespeariano saltellante e incline a sonore risate.
“Il visitatore” di Eric-Emmanuel Schmitt
Produzione Goldenart. Regia di Valerio Binasco. Con Alessandro Haber, Alessio Boni.
Al Teatro Franco Parenti di Milano dal 6 al 17 novembre 2013