“La sposa promessa – Fill the Void” di Rama Burshtein

Ortodossia e amore

Schira ha 17 anni e sogna un matrimonio felice. Appartiene alla comunità ebrea ortodossa di Tel Aviv. Il suo possibile futuro marito lo intravvede in una corsia del supermercato; accanto a lei, la madre è regista dell’incontro. La sorella di Shira è sposata con Yochay, tra poche settimane nascerà il loro primo figlio. Durante le celebrazioni di Purim, Esther muore dando alla luce il bambino. La famiglia è sconvolta dal dolore. Dopo qualche mese a Yochay viene proposta in moglie una giovane vedova belga. La suocera, terrorizzata all’idea di separarsi dal nipotino, vuole che sia la figlia minore a sposare il genero. Shira si trova a scegliere se addolorare se stessa, o sua madre: deve scegliere tra uno sconosciuto con cui poter scoprire l’amore e un uomo già conosciuto e che ha già amato sua sorella.

Per comprendere il primo lungometraggio di Rama Burshtein non è possibile prescindere dalla sua biografia: nata a New York nel 1967, si è diplomata alla scuola di cinema e televisione di Gerusalemme ed è entrata nella comunità Cassidica. Il suo obiettivo come artista è di costruire narrazioni capaci di restituire uno spazio espressivo alla comunità ortodossa. Il cinema diventa quindi uno strumento per dare volto, voce e luogo a uomini e donne appartenenti a una minoranza di stretta osservanza religiosa, i cui la forma dei precetti diventa sostanza di vita. E’ un’occasione per guardare dall’interno il succedersi di riti, di quotidianità e di profondi silenzi. La macchina da presa aderisce, registra a distanza ravvicinata, dando accesso a spazi ristretti che si riempiono subito e la cui frammentazione impedisce allo spettatore un pieno orientamento. Gli esterni sono solo scorci, ridotti all’essenziale per impedire qualsiasi messa a confronto tra la comunità e il resto del mondo: perché non è questo lo scopo del film.

Una conversazione tra amiche e una frase: “Hai visto quella deliziosa creatura? Si è fidanzata un mese fa con il marito della sorella che è morta”. Nasce così una piccola storia, dove il desiderio d’amore è forte, ma la conoscenza dell’altro severamente limitata a pochi momenti, a poche parole e alla totale mancanza di contatto fisico. E’ il racconto della distanza tra il proprio desiderio e quello di una madre amata e rispettata; di un travaglio che si consuma sotto lo sguardo di una famiglia, di una comunità, mentre aleggia l’ombra della solitudine di quelle donne che non hanno trovato marito e che senza uomo e senza figli sono come amputate.

Il cinema della Burshtein ha l’urgenza di fugare i pregiudizi e di affermare che gli amori possono nascere anche dalla rarefazione degli incontri, dagli sguardi più che dalle parole, come nei romanzi di Jane Austen, autrice per lei di riferimento.
Tutto questo può risultare incomprensibile, inaccettabile, ma quello a cui siamo chiamati come spettatori non è un confronto ma una disponibilità: di fronte a quel che sembra troppo lontano, occorre trattenere il giudizio che sgorga facile, riconoscendo alla regista il desiderio e la capacità di far partecipare a ciò che di autentico e sentimentale si trova nel suo mondo di stretta osservanza. Indubbiamente riesce a suscitare un senso di rispetto, anche grazie a una magnifica protagonista, Hadas YaronCoppa Volpi a Venezia 2012 – dallo sguardo cangiante tra malinconia e lampi di determinazione sottolineati dal suono di una struggente fisarmonica.

Un pensiero, un collegamento è però inevitabile. Il racconto a lieto fine di Rama Burshtein si ferma là dove, con un salto temporale di dieci anni, Kados (1999) di Amos Gitai, scritto da Eliette Abécassis [Eliette Abécassis – Ripudiata, 2006, Net], prosegue. Si racconta l’amore coniugale tra Rikva e Meir, minacciato dalle forti pressioni della comunità perché dopo tanti anni di matrimonio non sono ancora nati dei figli, sebbene Rikva non sia sterile. Un film doloroso, anch’esso stretto in claustrofobici spazi, dove è messo in scena il sofferto rapporto tra individuo e comunità e in cui le donne sono vittime silenziose di precetti arcaici che impediscono loro di prendersi cura dei propri affetti . E’ un punto di vista diverso, sofferto, critico, che può aggiungere quella complessità che un po’ manca all’esordio di Rama Burshtein.

Titolo originale: Lemale et ha’halal
Nazione: Israele
Anno: 2012
Genere: Drammatico
Durata: 90′
Regia: Rama Burshtein

Cast: Hadas Yaron, Yiftach Klein, Irit Sheleg, Chaim Sharir
Produzione: Avi Chai fund, Israel Film Fund, Norma Productions, Sundance
Distribuzione: Lucky Red
Data di uscita: Venezia 2012
15 Novembre 2012 (cinema)