Molte band sognano l’america. Gli Stati Uniti sprigionano ancora magia dal punto di vista musicale. Pochi artisti italiani riescono davvero a conquistare il cuore degli americani. I The Beards sono tra questi.
Partiti geograficamente dalla provincia di Venezia e musicalmente dal delta del Mississipi, i The Beards si fanno apprezzare per le loro sonorità calde, ruspanti, coinvolgenti che riescono a legare il sogno americano con la tradizione italiana.
La loro musica ricorda Bob Dylan, The Band, Johnny Cash, i blues rurali delle sterminate campagne americane, eppure emerge sempre un accenno della loro originalità, della loro personalità, che fa sì che i The Beardsnon siano la copia di nessuno dei musicisti sopra citati, ma, invece, trovino il loro posto all’interno di una lunga e prolifica tradizione musicale viva ancora oggi.
I tre musicisti, Max Magro, Andrea Tolin e Emanuele Marchiori, riescono grazie alla loro onestà musicale a comunicare una sensazione di genuina passione per quello che compongono e riescono a trasportare in un istante l’ascoltatore in un altro spazio e in un altro tempo.
Il loro primo album Mephisto Potato Sauce, che racconta vecchie leggende dell’entroterra veneziano, è stato prodotto da un’etichetta americana, e il gruppo è stato accolto favorevolmente da pubblico e critica d’oltreoceano. Il 7 ottobre uscirà il loro secondo album Diggin’ Fingers. Hanno da poco concluso il loro tour in Bretagna e vinto il Premio Armonie Musicali al Jesolo Music Festival. Ma i The Beards non hanno, a ragione, intenzione di fermarsi ora. NonSoloCinema ha incontrato il gruppo per conoscere meglio il progetto, la musica, il mondo dei The Beards.
D: Quando e come si è formato il gruppo?
R: Il progetto è nato nel 2005 dall’incontro tra me (Max n.d.r.) ed Emanuele.
Emanuele cercava musicisti per un concerto tributo a The Band. Corrado, suo fratello e mio caro amico, gli suggerì me come chitarrista e poco dopo Emanuele mi telefonò. Io portai con me Andrea al basso ed Enrico Fabris alla Batteria, con Emanuele al piano e voce e Giorgio Finamore all’organo la line up era completa e pronta per un concerto che alla fine non suonammo mai…saltò! Ciò nonostante in quell’occasione ebbe inizio il sodalizio con Emanuele e Andrea che ha alla base un chiaro e solido progetto musicale e il principio: “Uno per tutti e tutti per uno”. Emanuele aveva già maturato una certa esperienza in ambito discografico, io ero da diversi anni on the road come chitarrista e “capobanda”, così abbiamo semplicemente unito le forze sotto la stessa bandiera, “barbuta”, in un progetto nuovo e controcorrente. Andrea è entrato nell’armata trascinandovi tutta la famiglia, la quale ci ha fornito di una sala prova rigorosamente immersa nella campagna e della grappa nella quale puntualmente finiamo immersi noi!
Attualmente siamo in tre ma come i tre moschettieri abbiamo il nostro D’Artagnan: l’amico Andrea Garbo, un chitarrista che farà di certo strada.
Nell’ultimo tour, in Bretagna, Andrea non è potuto venire, ci ha dato una mano alla chitarra Alessandro Grazian, cantautore di notevole talento, e all’organizzazione e al Cimbalo il nostro roboante road manager Eddy Guiotto. In passato abbiamo avuto alla chitarra Nicola Novello, di lui è rimasto il personaggio nel fumetto…(scherzo Nic).
D: La vostra musica si rifà molto alla musica americana, come siete stati accolti all’inizio da pubblico, critica e addetti ai lavori in Italia?
R: L’Italia aveva assimilato molti elementi della musica oltreoceano, basti pensare ad artisti come Renato Carosone, Adriano Celentano, Mina etc. etc. gli arrangiamenti, il modo di suonare delle band erano facilmente e dichiaratamente riconducibili a generi Americani. Noi ci rifacciamo molto anche alla musica Italiana degli anni ’50 e ’60, ricca di riferimenti USA ma anche dell’estro tipico della nostra penisola, poi gente come Franco Cerri, Ennio Morricone, dove li mettiamo? Quindi siamo meno esterofili di quello che si può pensare, in ogni caso, possiamo dire che il pubblico ci ha sempre accolti calorosamente e noi ricambiamo, suoniamo per la gente che ha una settimana di lavoro sul groppone, per le persone con grandi preoccupazioni o grande voglia di divertirsi, fondamentalmente suoniamo per la gente e… per noi stessi ovviamente. Per quanto riguarda la critica il discorso diventa più complesso: qualcuno ci capisce, più di qualcuno ci ama e coglie in noi influenze di artisti di cui ignoriamo l’esistenza, pochi ci detestano ma ci detestano molto, non capiscono come mai riusciamo andare all’estero senza la loro “fondamentale” benedizione. Gli addetti ai lavori finora non sono pervenuti. Se si pensa che un’etichetta Inglese, la Pollytone distribuisce i nostri dischi in Italia si capiscono molte cose…
D: Da dove nasce il vostro sound?
R: Poeticamente prende ispirazione dai suoni della campagna, dal lavoro nei campi, suoni asciutti come quello del forcone che inforca la paglia o rumorosi e armonicamente complessi come il ragliare di un asino. Tecnicamente passa attraverso una razionalizzazione di quelle caratteristiche che possiamo considerare cardine della musica “vecchia”, in passato c’erano regole non scritte che dovevi rispettare se volevi che una canzone funzionasse, per esempio si tendeva a mettere dei “dispari” nei tempi pari, terzinando o giocando sulla sincope. Prestiamo molta attenzione a ogni singola nota, a come deve risaltare il rullante rispetto alla grancassa, suoniamo up-beat, c’è del boogie in tutto ciò che facciamo. Gli aspetti principali che ci interessano sono dinamica e timbro e per entrambi si riesce a far molto se ci si obbliga a utilizzare le tecnologie moderne solo quando sono strettamente indispensabili, strumenti con suoni naturali permettono gamme timbriche e fluttuazioni di volume impressionanti se ci si abitua a utilizzarli nudi e crudi. Cerchiamo di costruire unisoni che diano la sensazione di corpi solidi che si muovono nell’aria oppure orchestrazioni oniriche come in Mephisto.
D: Nell’album Mephisto potato sauce avete musicato leggende venete, ricollegandovi alla tradizione della folk music americana che riprendeva personaggi e leggende del passato, non solo americano, ma anche irlandese, scozzese, ecc. Come avete svolto il lavoro di ricerca storico, e quali difficoltà avete incontrato nel mettere in musica quelle storie?
R: Nonostante ci sia una letteratura sui miti e leggende Venete abbiamo preferito raccogliere delle testimonianze direttamente da chi queste storie le ha vissute sulla propria pelle, ci ha creduto, abbiamo intervistato molti anziani, è sconvolgente la paura che abbiamo letto negli occhi di questa gente mentre ci raccontava di mostri come “Umassa”, capisci che non ti stanno raccontando una storiella, tutto ha una consistenza molto reale. Abbiamo anche in progetto di realizzare un documentario, filmando le interviste di queste persone, entri in una dimensione diversa, da un’idea completamente diversa rispetto alla lettura di un libro, l’incresparsi di quelle facce rugose è tremendamente didascalico.
D: Da dove nasce la scelta di raccontare storie locali utilizzando un suono così poco italiano?
R: La scelta nasce dalla considerazione che è assurdo parlare del Mississippi quando sei nato a due passi dal Brenta, abbiamo creduto che le storie dei nostri nonni meritassero un disco internazionale, nel suo piccolo Mephisto abbatte il pregiudizio che per fare “blues” devi parlare del pesce gatto dell’Arkansas o della Rana Toro della Georgia… Per fare blues devi parlare di lavoro duro, sacrificio, passione, e i nostri antenati qualcosa ne sapevano. Inoltre, si dimostra come le distanze tra popoli siano labili, in molti blues si parla di donne cattivissime ma in realtà ci si riferisce ai padroni, ovviamente in modo clandestino per evitare le frustate, secondo te di cosa si parla quando si racconta del “rosteo sensa sangue”, un mostro che succhia il sangue ai contadini e non si sporca?
D: Quali sono state le emozioni e sensazioni che avete provato “sbarcando” musicalmente negli Stati Uniti con il vostro disco e il vostro tour?
R: Il nostro “sbarco” è iniziato prima del tour e sta continuando anche adesso grazie ai passaggi in radio, siamo arrivati ad avere fino a 450.000 ascoltatori durante una trasmissione di una radio di Chicago. Il tour è stato un’avventura incredibile, abbiamo percorso 14.000 Km, abbiamo suonato in posti come il Tootsie a Nashville dove hanno suonato artisti come Hank Williams, Neil Young, allo Smith’s Ole Bar di Atlanta, al Poorhause di Charleston. Abbiamo suonato anche per strada con strumenti giocattolo, abbiamo mangiato il tacchino ospiti dei “rednecks” a Panama City Beach in Florida e la polizia ci ha quasi arrestato in Pennsylvania.
Abbiamo fatto amicizia con delle persone splendide, Benji Shanks di Last Walz Ensemble ci ha regalato una telecaster appartenuta a Marc Ford, abbiamo visto Levon Helm “parcheggiare” la limousine in una specie di concimaia.
D:Avete avuto la fortuna di collaborare con Levon Helm, nome che subito rievoca The Band e i momenti magici della loro fortunata collaborazione con Bob Dylan, com’è stato lavorare con lui? Quanto del passato ha influenzato la vostra collaborazione?
R: Al cospetto di Levon in principio siamo stati letteralmente inebetiti, poi grazie alla sua genuinità ci siamo lasciati andare un po’. Quando siamo arrivati ai Levon Helm Studios, un edificio enorme costruito completamente in legno, simile alle stalle che si vedono nei film Western, Levon stava mixando insieme al suo tecnico del suono Justin il disco di Elvis Costello. Solo a stare in piedi al centro di quel salone si impara molto. In quel salone, tra parentesi, si svolge il Midnight Ramble. Il passato influenza molto ma non come si crede. Per la questione The Band, condividiamo una passione sfegatata per Muddy Waters, Howling Wolf, Johnny Cash.
D: Parlateci di Diggin’ Fingers, il vostro album in uscita ad ottobre…come mai la scelta di realizzare un album prevalentemente di cover?
R: L’idea che in Italia che si ha di cover è di una canzone praticamente identica all’originale, da qui l’espressione: “sembra il CD!” quando una cover band è particolarmente brava a conciarsi come gli U2 o ha un cantante con un cappellino simile a quello di Vasco Rossi. Una cover invece ha senso quando dice qualcosa di diverso rispetto all’originale, grandi interpreti hanno dato molteplici vite a canzoni già scritte e registrate. Cover ne hanno fatte tutti: Hendrix che fa la cover di Dylan e poi Dylan che fa la cover di Hendrix che fa la cover di Dylan, Bruce Springsteen esegue un album di canzoni degli anni ’30, Johnny Cash che fa cover di Nine Inch Nails, Soundgarden, Depeche Mode etc.
Diggin’Fingers è un disco che ha a che fare con le nostre radici musicali, con i Basement Tapes di Dylan and The Band e con un concetto estrapolato dal libro di Greil Marcus Quella strana vecchia America che analizza la storia Americana attraverso, appunto, i Basement Tapes.
I Basement Tapes sono una serie di registrazioni risalenti alla fine degli anni ’60, nel periodo in cui Dylan e The Band chiusi nella cantina di Big Pink a Woodstock suonavano dal traditonal Appalachiano più inconsueto a Cash, da un Blues rurale a una loro composizione, una sorta di vera e propria cospirazione sonora.
Greil Marcus mette a fuoco l’idea che i “nastri” potrebbero arrivare dal 1870, dal 1920, dagli anni’60 oppure dal 2045, sono privi di qualsiasi vincolo temporale e del tutto destabilizzanti.
In Diggin’ Fingers sono contenuti due brani dei Basement Tapes, qualche brano di Cash ma anche un brano dei Soundgarden e addirittura un brano di Ozzy Osbourne, seguendo appunto lo schema cospiratorio dei “nastri” abbiamo abolito vincoli stilistici e temporali. Chi si chiede che attinenza esiste tra Ozzy e The Band, dovrà anche chiedersi cosa c’entra Diggin’Fingers con un album di covers. Il cd contiene inoltre Caledonia Avalanche Blues, un brano a noi caro perché scritto con TJ Cole, un grande amico e uno splendido artista, non vediamo l’ora di tornare a Woodstock per farsi una suonata e una pasta aglio, olio e peperoncino assieme!
D:Avete da poco vinto il Premio Armonie Culturali alla seconda edizione dello Jesolo Music Festival. Come descrivereste questa esperienza?
R: Jesolo Music Festival è una manifestazione sana, seria e simpatica perchè è organizzata da persone che credono in quello che fanno e che hanno rispetto per gli artisti. Molto spesso festival e concorsi servono solo a spillare qualche soldo a gruppi in erba o a spinare ettolitri di birra senza l’impiccio di pagare i musicisti.
D: Una delle vostre prossime esibizioni dal vivo sarà il 4 settembre al Re-Birth Party organizzato da NonSoloCinema in collaborazione con J+ al Lido di Venezia in occasione Mostra del Cinema. Come si sentiranno i The Beards in questo contesto “cinematografico”?
R: I The Beards si sentiranno onorati e a proprio agio. Noi ci vediamo come i fratelli Coen che suonano, mentre oltreoceano ci vedevano come una sorta di fratelli Marx! Attualmente siamo già personaggi nel fumetto dell’amico Gianluca Maconi, magari un regista ci prende in blocco per un film comico!
D:Cosa farete dopo l’uscita del vostro nuovo album?
R: Probabilmente torneremo a suonare in Bretagna, dovremmo partire verso la metà di Ottobre in corrispondenza dell’uscita di Diggin’Fingers.
D: Se doveste immaginarvi nel futuro, vi vedete negli Stati Uniti o in Italia?
R: Ci vediamo in viaggio…
Foto a cura di Samir Gardin Copyright © NonSoloCinema.com – Samir Gardin
INFO:
www.thebeards.it