Fuori Concorso
Siamo su un’isola nel nord della Russia: in un monastero ortodosso uno dei monaci mette in imbarazzo i confratelli con il suo comportamento stravagante e indisciplinato, nonostante la povera gente si rivolga speranzosa a lui considerandolo alla stregua di un santo. Ma padre Anatolij si comporta così in quanto è scosso da un forte dissidio interiore, segnato com’è dai rimorsi per una colpa tremenda di cui si è macchiato in gioventù.
Pavel Lungin, regista moscovita da anni trasferitosi a Parigi, testimonia con questo suo ultimo sentito lavoro una svolta spirituale nella sua vita di autore finora dedicatosi alle nuove figure sociali della sua patria di origine (Le nozze, 2000, L’oligarca, 2002, fra i più recenti). Il russo punta molto in alto con questo suo L’isola, racconto drammatico di una vita vissuta nella penitenza e nel rimorso, che unisce echi tolstojani a certa cine-topografia di Kim Ki-duk (fin dal titolo che richiama il capolavoro del coreano del 2000): siamo infatti in un luogo isolato dal mondo, in mezzo ad una natura selvaggia in cui l’essere umano ha la possibilità di confrontarsi con i suoi demoni e con il senso della propria vita.
Il monaco Anatolij ha commesso un atto vergognoso, uccidendo un commilitone durante la Seconda guerra mondiale (pur costretto dai nazisti e per potersi salvare la vita). Si rifugerà appunto in un convento e impiegherà tutta la sua esistenza ad “elaborare” (diremmo noi con linguaggio psicanalitico) il suo atto di viltà; ma è meglio espiare un peccato indelebile, secondo l’ottica ascetica del tormentato eremita e secondo le parole di un Lungin che con questo lavoro sembra riscoprirsi uomo di fede.
Lungin prende il meglio dalla natura della Russia del nord, inserendo questa eccentrica storia di morte e resurrezione dello spirito in una landa silenziosa e pacifica, che però sembra poter nascondere spiriti ed entità che l’uomo moderno di città ha ormai dimenticato. La fotografia di Andrej Zhigalov richiama alla mente la tavolozza da lui già usata per il bel Kukuska (Il cuculo, 2002) di Aleksandr Rogozkin: “aderisce” perfettamente alle impervie locations, è livida e densa, assecondando una regia austera e a tratti ieratica, i toni di blu e di grigio sporco ben si sposano con un profilmico che non può che essere minimale; il nero carbone che simbolicamente Anatolij continua a spalare nel locale caldaie del monastero (in guerra era fuochista), la rada vegetazione di licheni ed arbusti che ravviva qua e là il monotono habitat sub-artico, il legno delle povere abitazioni monacali, nonché gli indumenti del protagonista, in sostanziale contrasto con certe tendenze mondane di alcuni confratelli vittime inconsapevoli del secolo. Il contrasto fra l’eccentricità del penitente, che sembra davvero mettere in pratica il precetto evangelico che consiglia di “morire al mondo per ritrovare se stessi” e il lusso malcelato di paramenti e comfort vari degli altri padri fa da correlativo oggettivo alla opposta condizione spirituale dei diversi protagonisti. Mentre Anatolij non si perita di assumere atteggiamenti scontrosi e di fare scherzi di cattivo gusto a fin di bene (per evitare un aborto si finge un’altra identità, in un attacco di pazzia simulato brucia alcuni beni preziosi del padre superiore per “liberarlo dai vincoli terreni”), in fondo ci sembra tuttavia di vedere in lui un pentimento sincero, una lotta per la vita e la morte dell’anima, senza compromesso alcuno, un discorso perennemente aperto con la propria colpa giovanile. In questo rispetto Lungin è magistrale nell’alternare pennellate psicologiche che ci portano dentro un animo profondamente combattuto e nel mostrare, d’altro canto, certa frivolezza degli altri padri spirituali.
Nonostante questi pregi, l’impressione finale della visione è che Lungin non sia riuscito a staccarsi dal dramma di una “semplice” vicenda personale ed emblematica (pur intensa e magistralmente girata), senza cioè attingere ai livelli del cosiddetto “film d’arte”, che dice più di quanto mostri e pone più problemi di quanti ne risolva (si veda anche solo Il ritorno, vincitore russo qui a Venezia che era tanto più sconvolgente quanto meno lineare era il suo assunto). Qui la storia è coinvolgente, il personaggio si fissa nella mente dello spettatore come uno di quei “santi idioti”, o “pazzi in Cristo” della tradizione ortodossa, ma anche uno scioglimento finale fra lo spiritistico ed il sensazionale non ci convince a spendere l’altrove spesso abusato termine di “capolavoro”.
Titolo originale: Ostrov
Nazione: Russia
Anno: 2006Durata: 112′
Regia: Pavel LounguineCast: Petr Mamonov, Dmitry Dyuzhev, Viktor Sukhorukov
Produzione: TV Channel RussiaData di uscita: Venezia 2006