Balcani, 1992 – 1995. Ci sono cinque storie, che sono cinque scelte.
La prima: un autista, mentre Milošević ordina la strage di Srebrenica, salva tutti i suoi passeggeri e li porta a Tuzla, rischiando ad ogni posto di blocco la sua stessa vita. La seconda: un uomo sceglie di aiutare una madre a recuperare suo figlio a Zenica, da più di un anno lontano dalla famiglia, con una guerra in corso e una frontiera nemica, per lui mortale, da attraversare. La terza: un medico rimane a Mostar a curare i feriti di guerra, nonostante la città sia ormai quasi deserta; e quando la pulizia etnica entra anche nel suo condominio, riceve proprio da un “nemico di etnia” la mano necessaria a salvarsi. La quarta: i soldati stanno arrivando, stanno facendo pulizia delle etnie non gradite in città. Nel quartiere è rimasta solo una famiglia “non gradita”, una famiglia paralizzata dalla paura che ora non è più in grado di capire cosa fare. E allora interviene una vicina di casa, la “nemica”, secondo un certo potere: consegna loro i suoi risparmi, li fa scappare, li sprona. E così, li salva. La quinta: un soldato riceve da una vecchia un passaporto che lo obbligherebbe, secondo le regole della guerra etnica, a fucilarla immediatamente. E invece la copre e, col suo tradimento all’esercito, la salva.
Cinque storie tutte vere, cinque storie che testimoniano la possibilità di una scelta diversa dall’odio interetnico in quel bagno di terrore che furono i Balcani della guerra civile degli anni ’90. Marco Cortesi e Mara Moschini le raccontano nello spettacolo La scelta – E tu cosa avresti fatto?, andato in scena nel patronato di San Bellino all’Arcella, a Padova, in una serata organizzata dal Gruppo Agesci Padova 12. Sostenuto da Amnesty International e dalla Rai – Segretariato Sociale, La Scelta, da novembre 2011, ha già fatto 88 repliche, e tutte senza alcun compenso per gli autori se non quelli derivanti dalle offerte libere del pubblico. Uno spettacolo a tutti gli effetti militante, che diventerà il prossimo anno un dvd e un libro. Ne parliamo con Marco Cortesi, che già aveva affrontato sul palcoscenico il tema della guerra dei Balcani nel monologo Le donne di Pola, replicato ben 348 volte.
Marco, partiamo dall’inizio. Come’è nato La scelta?
La volontà dello spettacolo viene da Mara. Lavoravamo insieme da circa due anni a Rai Storia, in un programma che si chiama Testimoni – Le voci della storia, che cerca di raccontare le pagine della storia italiana attraverso un racconto teatrale in tv. Mara aveva letto un bellissimo libro, I giusti nel tempo del male, tradotto ad oggi in sette lingue, venduto in migliaia di copie; un libro-testimonianza scritto da Svetlana Broz, la nipote di Tito. Svetlana Broz è un medico cardiologo che, quando scoppia la guerra, carica in macchina la figlia di sette anni e va a curare la gente nei campi di battaglia, nonostante avrebbe potuto vivere senza problemi a Belgrado, dove non c’era la guerra. Svetlana è testimone di un piccolo miracolo: in mezzo a tante storie difficili, iniziano a giungerle storie bellissime, quasi incredibili, di gente che, a rischio della sua stessa vita, si è aiutata a vicenda. Vicini che aiutano vicini, amici che aiutano amici, sconosciuti che aiutano altri sconosciuti. Ha raccolto 99 di queste testimonianze, perché 99 è divisibile per tre, così nel libro ne compaiono 33 per etnia. Abbiamo avuto l’onore di fare lo spettacolo alla sua presenza a Forlì, ed è stata una delle esperienze più devastanti della mia vita. Era così emozionante che quasi stavo male. Alla fine dello spettacolo si è alzata – ed è una donna veramente imponente -; e in un inglese perfetto con un forte accento slavo ci ha detto “Grazie, perché voi avete capito quello che noi abbiamo sofferto”. Io e Mara siamo scoppiati a piangere.
Quindi voi, tra 99 storie raccolte da una testimone diretta, ne avete selezionate cinque. E il filo comune, come recita il titolo dello spettacolo, è la scelta.
Abbiamo scelto le storie più toccanti, anche se alcune sono il risultato dell’unione di più racconti, rendendo il tutto un po’ più narrativo per chi ascolta. Ma sono tutte storie reali legate dal tema della scelta. E legate anche dal coraggio di dire “Se lo voglio, allora la cosa giusta è farlo”. Un po’ come la ricerca della felicità. Lo spettacolo risulta molto potente per il pubblico delle scuole: alla fine diciamo “Seguite i vostri sogni, non riparatevi dietro i non posso“; ci saranno sempre moltissime difficoltà, ma il vero gesto di sincerità e di onestà nei propri confronti è dire: “lo voglio o non lo voglio?”. Perché se lo vuoi, allora vedrai che una possibilità ti verrà sicuramente data.
Il sottotitolo dello spettacolo è E tu cosa avresti fatto?. Una domanda diretta allo spettatore, a cui chiedete di interrogarsi; e di interrogarsi a partire dall’evidente giustezza delle scelte, seppur difficili, compiute dai vari personaggi che agiscono nelle storie. Eppure il teatro, soprattutto quello contemporaneo, evita la conclusione, perché lascia allo spettatore la sua possibilità di rielaborare. Voi invece fate una cosa che attiene più alle favole: chiudete, e oltretutto con la morale. Una morale esplicita: dite al pubblico cosa deve fare secondo voi.
Esatto. È vero come l’oro, ed è una cosa che io personalmente adoro. Questo spettacolo nasce per dare un messaggio. Uno spettacolo che lascia la conclusione aperta è molto più misterioso; io e Mara invece siamo a carte scoperte: vi raccontiamo queste storie perché vogliamo mettervi in testa questo messaggio. E, dato che tutti a teatro vogliono un po’ lasciare sul vago le conclusioni, scopri che non hai nemici se invece tu un messaggio lo dai. E secondo me il messaggio è così forte, ma soprattutto è così positivo se confrontato alla negatività che ci circonda, che anche semplicemente sottolinearlo non ha mai fatto male. Anzi: la gente ha un messaggio bello, finale, palese, da portarsi a casa.
E non parlavano da sole le storie?
È vero. Quello che dici ci è stato riferito anche da un ragazzo di Sarajevo all’Università di Urbino, che studiava comunicazione; diceva: “Queste storie, da sole, hanno molta poesia; e forse alla fine, dichiarando un messaggio, è come se le privaste della loro poesia”. Devo dire che ha ragione. Ma, se per un pubblico più educato teatralmente e culturalmente la conclusione esplicita aggiunge qualcosa che è già stato detto, c’è un’altra tipologia di pubblico, più televisivo, quello che è venuto a teatro probabilmente perché ha visto la Rai tra i patrocini, che apprezza il palesemente dichiarato. Un’abitudine che arriva dal linguaggio fiction, tv, semplice e chiaro. Anche nelle scuole apprezzano moltissimo questo meccanismo, perché genera il dibattito. Se pensiamo alla valenza educativa del teatro, noi ci riferiamo proprio a quelli meno disposti ad ascoltare. Quando andiamo in scena in una serata organizzata da Amnesty International, ad esempio, sappiamo già che il pubblico è già “dalla parte giusta”; ma in altre occasioni tanta gente che ci viene a vedere potrebbe essere quella che poi dice “bisognerebbe avere una bomba e ammazzarli tutti”. Ecco, a queste persone devi davvero dire quello che esattamente è. Secondo me questa è la scoperta di una sorta di valore educativo del teatro: cioè un ex-ducere, condurre fuori da un’area di comodità che sostanzialmente è una bolla di paura.
C’è una parte dello spettacolo nella quale descrivete i sette ingredienti che costituiscono la ricetta del disastro: i sette elementi che, prima della guerra nei Blacani, hanno fertilizzato il terreno del conflitto. Per noi, nell’Italia di oggi, sono sette campanelli d’allarme; anzi, sette sirene che urlano fortissime: la crisi economica; il razzismo e la xenofobia; l’ipernazionalismo; il degrado culturale; le spinte secessioniste; il conflitto d’interessi nella classe politica; il dominio della violenza e dell’illegalità. Mi pare questa una cosa molto “utile” del vostro spettacolo – utilizzando volutamente l’aggettivo “utile”, secondo le vostre intenzioni militanti.
È la parte più spinosa e difficile dello spettacolo; esiste solo da poche repliche e l’abbiamo scritta in collaborazione con il professor Stefano Bianchini, che è stato membro del tribunale dell’Aja. È una parte tanto importante quanto fastidiosa da raccontare perché è molto pungente. Quando la facciamo soffriamo. È scomodo per tutti ascoltarla, è spaventosa, è inquietante. Mi piacerebbe essere più classico, absolutus, sciolto da tutto il resto. Ma non è così.
Hai usato il termine “televisivo” per riferirti a questo spettacolo. E devo dire che, mentre vi guardavo in scena, davvero mi sembrava di riscontrare un uso del corpo, della voce, una scelta della sintassi delle frasi molto simili al linguaggio televisivo.
Il vero campo di battaglia di questo spettacolo sono sempre state le scuole superiori. È un pubblico molto difficile: se li perdi, li perdi in maniera molto plateale; e quindi tutto è calibrato sulla loro attenzione, che è l’attenzione alla MTV: taglia, stacca, taglia. Certo, alcune volte ci piacerebbe fare un discorso più lento, più armonioso, meno emotivo, ma perderemmo la loro attenzione. E se perdiamo proprio gli studenti, abbiamo fallito totalmente.
Mentre guardavo “La Scelta”, pensavo a una definizione per questo tipo di spettacolo – per quel che servono le definizioni, poi. Ad ogni modo: mi veniva in mente “teatro didattico”. Il che ha molto a che fare con il vostro intento educativo…
Siamo circondati da intrattenimento. 24 ore su 24 in tv: perché una tv giustamente deve sempre ragionare per ascolti, per emozioni. Di intrattenimento ci sono centinaia di canali e anche tanto teatro. Chi viene a vedere noi, per una sera, deve ragionare.
Quali sono le reazioni del vostro pubblico?
La cosa più bella è quando ci ringraziano; molta gente si commuove. È sempre un “grazie per averci aiutato a spostare il binocolo su un’altra storia, ad aprirci gi occhi”. È un ringraziamento proprio per il valore didattico dello spettacolo.
Qual è la storia che più senti tua delle cinque che raccontate?
L’ultima. Una famiglia deve fuggire e per farlo deve passare una frontiera alla quale, se i soldati avessero scoperto le loro vere origini, sarebbero stati tutti immediatamente fucilati. I membri di questa famiglia ottengono dei passaporti falsi e per mesi lavorano a costruirsi una nuova identità: madre, padre, figli, nonni, imparano a memoria i loro nuovi nomi, le loro nuove storie, i loro nuovi legami di parentela. Arriva il giorno in cui salgono sull’autobus per intraprendere il viaggio. Si dispongono tutti sparpagliati tra i sedili: se anche una persona si fosse tradita, i soldati non avrebbero capito che era accompagnata anche dal resto della famiglia. Al posto di blocco inizia il controllo dei passaporti. Il bambino, in prima fila, fa tutto correttamente, consegna ai soldati il passaporto falso. A mano a mano che i controlli continuano, i vari membri della famiglia recitano il loro ruolo alla perfezione. Fino a che il soldato non arriva alla nonna. La quale apre la borsa e, tremando, gli consegna il suo vero passaporto. Allora lui la guarda, le si avvicina, le riconsegna il passaporto, e le sussurra: “Non questo, l’altro”. E poi, ad alta voce: “Tutto a posto, buon viaggio signora”. È una storia stupenda, e completamente reale. È una situazione, quella dell’autobus, in cui tutti ci siamo trovati. E questa storia, nella sua quotidiana semplicità, è veramente straziante. E poi penso: cosa avrebbe fatto mia madre? Mia nonna gli avrebbe dato tutta la borsa, a quel soldato. È una storia che un po’ alla Giorgio Gaber: la bontà di questo soldato che rischia la sua vita nel dirle “dammi l’altra fintanto che siamo in tempo” fa sorridere, e allo stesso tempo è un pungo nello stomaco.
Ma a te, dei Balcani, cosa ti ha stregato? Perché La Scelta fa parte di un dittico, che iniziava con Le donne di Pola, che nasce dal tuo vissuto.
Assolutamente sì. Avevo 21 anni esatti e stavo partecipando a un campo di lavoro della Croce Rossa Italiana e dell’Agesci. Ci trovavamo in un campo profughi multietnico in Istria, a Pola: ospitava 2500 sopravvissuti, provenienti da tutti e tre i gruppi che erano stati in guerra – croati cattolici, bosniaci musulmani, serbi ortodossi. In quei giorni compivo gli anni e pensavo: “Chissà cosa mi regaleranno i miei genitori”. Allora conosco un ragazzo, che aveva la mia stessa età, e che era felice perché avevamo portato del latte: sua nonna era malata e da anni non beveva latte. Quello è stato un pugno fortissimo nello stomaco, ha ribaltato ogni cosa. Fa molto male, all’inizio; ma alla fine sposta il proiettore sulla cosa giusta. E allora cito sempre questa frase di Gandhi che dice: “La vera felicità molte persone la dimenticano; non giunge dalle gratificazioni personali o dalla ricchezza, ma dall’orgoglio per quello che si fa”. E questa è veramente una droga: fai una cosa di cui sei orgoglioso, ed è la cosa più bella del mondo. Anche se non ti pagassero, tu continueresti a farla. E quindi io sono legato alla Bosnia: ho un debito di gratitudine per quella secchiata d’acqua devastante che però mi ha svegliato. Ma attenzione, non voglio essere il paladino della Bosnia; questo sarà l’ultimo spettacolo sui Balcani, anche perché ci sono tante storie altrettanto attuali da raccontare.