Al Festival di Karlovy Vary una delle sezioni collaterali è tradizionalmente dedicata alla produzione ceca dell’anno; se consideriamo anche i film di casa presentati nelle tre sezioni competitive (e qualche altro titolo recuperato di recente in altri festival), possiamo trarne un quadro d’insieme e un aggiornamento parziale sullo sviluppo della cinematografia a Praga e dintorni.
Del film vincitore del Concorso principale (Little Crusader di Vaclav Kadrnka) parliamo estesamente in separata sede; qui basterà ribadire che sia i selezionatori che la giuria hanno dato prova di indipendenza e visione prospettica, i primi scegliendo un film che si staglia rispetto alle tipologie dominanti nella produzione ceca, i secondi preferendolo ad altri pur buoni concorrenti, che si inscrivevano in modalità narrative e drammatiche più lineari.
A ben vedere, però, il film non è del tutto isolato in questa sua ricerca di approcci meno tradizionali e narrazioni più spigolose e arrischiate: ci è molto piaciuto infatti l’esordio di Josef Tuka (Absence of Closeness), concorrente ceco nell’altra sezione competitiva, “East of the West”. Tuka è uno studente della gloriosa FAMU praghese, allievo della compianta ed amata (da chi scrive) Vera Chytilova, ma il suo tratto stilistico è quanto di più lontano ci possa essere dalla verve rivoluzionaria e dall’aggressività dell’autrice delle Margheritine. Tuka lavora con materiali freddi, desaturando colori, ambienti e personaggi, e operando in maniera tagliente con un montaggio che ci ha stupito per la sua capacità di offrirsi come correlativo oggettivo ai “fendenti” emotivi con cui le protagoniste si attaccano e feriscono a vicenda. Hedvika, incapace di navigare in acque sentimentali tranquille, si rifugia in casa della madre-matrona, con la quale ha però dei conti in sospeso riguardo alla valutazione che le due donne danno del padre-marito. Quello infatti aveva sottoscritto il documento di Charta 77, a sostegno dei diritti civili e in contrasto con il regime poliziesco della Cecoslovacchia comunista, precipitando però con ciò stesso la famiglia in enormi difficoltà esistenziali. Con l’aiuto di un comparto tecnico eccellente che ci fa pensare a certi film “congelati” ed essenziali dei paesi scandinavi, Tuka riesce ad inscrivere un discorso sottilmente politico sul dissenso e su ciò che esso ha comportato per i pochi coraggiosi che lo abbracciarono negli anni Settanta e Ottanta all’interno di dinamiche di scontri familiari quasi-archetipici di notevole impatto. Il tutto eseguito con asciuttezza formale e sicurezza narrativa (per quanto limitata a soli 65 minuti di film) che ci hanno dato l’impressione di vedere in fieri la nascita di un nuovo autore molto interessante. Qualcuno, lo so, potrebbe accusare questo Absence of Closeness di certo manierismo, ma a parere di chi scrive Tuka è un nome da seguire.
Film molto più tradizionale, ma non per questo malvagio, è invece l’ultimo lavoro di un regista che seguiamo dall’inizio del suo percorso e che vediamo ora arrivare ai cinquant’anni in ottima forma: Bohdan Slama ha avuto anche la possibilità di vedere qualche suo film distribuito nelle sale italiane, e con questo Ice Mother si conferma ottimo narratore di sentimenti minimi (ma non minimalisti), disegnati con delicatezza e con un humour a tratti corrosivo indirizzato sui vizi e i difetti della famiglia ceca media e sui falsi miti sulla quale essa si poggia. La storia di Hana, vedova sessantenne che ritrova sprazzi di giovinezza e iniziativa vitale nell’incontro con un outcast che vive in una roulotte di periferia, è ben condotta sui binari divergenti delle (in)certezze borghesi di figli un po’ disumanizzati e, d’altra parte, della libertà mentale di un gruppo di anziani tuffatori nelle acque gelide della Moldava, così da realizzare un contrastato e divertente affresco di geli e calori, immobilità e spinte verso il futuro. A Tribeca Ice Mother ha vinto già il premio per la migliore sceneggiatura, siamo sicuri che potrebbe avere un futuro anche dalle nostre parti…
Meno strutturato, ma comunque ben fatto, è un film di genere senza troppe pretese, ma dignitoso nel rappresentare l’avidità umana e le piccole cattiverie quotidiane che a volte segnano le vite dei personaggi anche nei tempi a venire: Green Horse Rustlers (in ceco il titolo suona come “Ladri di cavalli verdi”) è la storia di due amici, Pavel e Kacmar, appassionati ricercatori di pietre preziose, ma anche uniti (a loro insaputa) da un drammatico evento passato, legato alla neo-sposina di uno di loro. Il film probabilmente è di quelli che possono avere un appeal solo sul pubblico e mercato interno: si parla infatti di “moldaviti” pietre preziose note da queste parti come minerali rari e ricercatissimi, che danno vita ad una sorta di eastern centro-europeo giocato sull’ingordigia e le piccole vendette di questi atipici “gold-diggers”. Non male, insomma, come film di genere e al di sopra degli standard meramente televisivi, con dalla sua un buon Pavel Liska, che in generale non delude neanche in queste parti minori e che qui disegna un’interessante figura di “villain”, ma purtroppo non ha avuto molto seguito neanche nelle sale di casa.
Totalmente sballato e confusionario è invece, purtroppo, un bio-pic che avrebbe potuto dare ben altri risultati, se non avesse peccato di modestia, scimmiottando modelli USA e inutili complicazioni di sceneggiatura. Parliamo di Masaryk di Julius Sevcik: ne avevamo già reso conto dal festival di Berlino, notando come questi modelli di coproduzione e raffigurazioni “alla HBO” siano pericolosi se mancano un giusto equilibrio ed un più saldo polso autoriale, di modo che già allora ci auguravamo che non fosse questa la via seguita in futuro dalle produzioni ceche.
Chiudiamo con l’unica opera non di fiction: nella sezione documentari ispirava molta curiosità il nuovo progetto di Vit Klusak (suo, in comproprietà con Filip Remunda, il noto Czech Dream, 2004). Si tratta di The White World According to Daliborek, la storia stravagante di un fallito complessato (diciamo le cose come stanno) che vive nella provincia ceca come seguace del neonazismo e sostenitore del “white power”, nonché negazionista antisemita. La storia poteva essere esplosiva, ma purtroppo Klusak, pur restituendo l’immagine di un povero figlio di mamma incastrato in una fase psicologica primitiva, non si decide se seguire le strade del documentario di scrittura, dell’osservazionalità o della stravaganza più assoluta. Il finale, girato ad Auschwitz durante una escursione turistica alla quale il meschino Daliborek prende parte, ci fa rimpiangere lo stile asciutto e rigoroso di un Loznitsa, oltre a farci sperare che il buon Klusak ritrovi il giusto tono per trattare anche argomenti estremi come questo con ironia, ma con maggiore compattezza di scrittura.