Un uomo e una donna si raccontano storie e segreti in un giardino immerso nella quiete, mentre uno scrittore scrive la loro storia e i loro dialoghi, osservandoli mentre si dipanano e divenendone partecipe.
Les Beaux Jours d’Aranjeuz non è un film: è la ripresa di uno spettacolo teatrale
Se il cinema è raccontare una storia attraverso le immagini, Les Beaux Jours d’Aranjeuz non può in alcun modo essere considerato un film. Non c’è nulla di cinematografico in quest’opera, che si limita a mettere pedissequamente in scena il suo (pessimo) testo, senza alcuno spunto visivo. Le immagini sono accessorie, scolastiche, asservite a un dialogo verboso e privo di senso logico, affidato a due attori che oscillano tra il mediocre (lui) e il pessimo (lei), in cui l’azione non esiste e la presenza dell’autore che scrive appare come un puro artificio retorico, senza alcuna profondità narrativa e di significato.
Non basta un finale emotivamente e visivamente di impatto per salvare un’opera senza né capo né coda. L’uso del 3D risulta finto e inutile, tanto che si può tranquillamente guardare il film senza indossare gli occhiali. Risulta difficile capire come un film del genere possa aver raggiunto le porte del concorso: la risposta è probabilmente nel nome del regista, il grande Wim Wenders, che sembra aver girato il film più per fare un favore all’amico Peter Handke, autore del testo teatrale, che per comunicare qualcosa.
Les Beaux Jours d’Aranjeuz rappresenta forse il punto più basso della carriera di Wenders, un film talmente concentrato sulle sue pretese intellettuali che finisce per dimenticarsi del principi fondanti dell’arte cinematografica. Così si esce dalla sala con la sensazione che i giorni della creatività wendersiana siamo ormai passati, finiti, esattamente come gli schilleriani giorni d’Aranjeuz del titolo.