Mitra è una regista iraniana, (probabilmente) esiliata dal suo paese. Sta girando un film su Oum Kulthum, la cantante di maggior successo del mondo arabo e suo personale modello di riferimento. Ma avrà davvero capito CHI è Oum Kulthum? Ai posteri l’ardua sentenza (hint: no).

Shirin Neshat, regista e artista visiva, torna a Venezia, anche se forse sarebbe più giusto dire che non se n’è mai davvero andata. Dopo aver vinto il Leone d’Oro come miglior artista alla Biennale Arte del 1999 e il Leone d’Argento per il suo primo lungometraggio, Women Without Men, alla Mostra del Cinema del 2009, è al momento presente al Museo Correr con l’evento collaterale della 57. Mostra Internazionale d’Arte, The Home of My Eyes.

Incredibilmente, anche Oum Kulthum è presente in questa Biennale Arte, nell’installazione dell’artista francese di ascendenza algerina Kader Attia. Le onde sonore provocate dal suo canto fanno danzare dei grani di cous cous poggiati su una cassa, secondo il principio delle piastre di Chladni.

Al di là di queste interessanti coincidenze artistiche, o fato se così si vuole, l’opera in questione è una sorta di ibrido. Non biopic, poiché Oum Kulthum serve unicamente come alter ego/modello di riferimento della protagonista, Mitra (Neda Rahmanian), che sulla cantante e la sua vita proietta tutte le proprie ambizioni. Al contempo, però, neanche la storia di Mitra sembra essere il focus principale della regista, che si limita ad accennare, invece che approfondire, le problematiche alla base delle scelte della sua protagonista, prima fra tutte il rapporto contrastato con il figlio adolescente che non vede da sette anni, probabilmente da quando è stata costretta a lasciare l’Iran (peraltro per ragioni che non vengono mai spiegate). Lo stesso trattamento viene riservato allo spunto di analisi femminile e delle limitazioni di genere proprie alle donne nella società araba, tematica da sempre in primo piano nelle opere di Neshat ma che qui pare relegata sullo sfondo.

Non aiuta, inoltre, che la nostra protagonista – iraniana in Egitto – non parli arabo e sia costretta a usare l’inglese per poter comunicare con il suo cast and crew, in un’interpretazione che purtroppo risulta piuttosto artificiosa e forzata.

Le scene realmente riuscite, a mio parere, sono quelle oniriche – l’inizio, le stanze ricolme di personaggi identici, quasi fosse un supermercato dove scegliere l’attore più verosimile, e la fine – e, indubbiamente, quelle in cui la splendida voce di Radha (Yasmin Raeis), attrice improvvisata chiamata a impersonare Oum Kulthum in questo film nel film, prende il sopravvento su tutto.

In quei momenti l’opera finalmente pare acquistare respiro, ma questi sono troppo pochi e frammentati per poter tenere a galla l’intero film, con il risultato che ci troviamo di fronte a una storia bisbigliata, invece che cantata a pieni polmoni. Come forse invece avrebbe fatto Oum Kulthum.