A rappresentare la Svizzera nella sezione della Settimana Internazionale della Critica di questa 74a Mostra del Cinema di Venezia è la filmmaker Katharina Wyss con il film drammatico Sarah joue un loup garou (letteralmente Sarah interpreta il lupo mannaro), alla sua prima pellicola di narrativa dopo il mediometraggio 1000 Meilen von Taschkent e alcuni corti. Il film racconta una storia di disagio adolescenziale legata al mondo e al linguaggio del teatro, in modo originale e ricco di pathos.
Sarah è una ragazza di diciassette anni, innamorata del teatro e incredibilmente presa dai preparativi per lo spettacolo del suo corso di recitazione. Ad aspettarla a casa il padre, affascinante intellettuale, la madre musicista e la sorella più piccola, mentre il fratello più grande studia fuori città. Una situazione di forte disagio causata anche da una profonda solitudine la porteranno a trasformare questa passione in una vera e propria ossessione, fino a confondere la realtà con il linguaggio teatrale dando inizio a una spirale di drammaticità ascendente che terminerà con un tragico (ma, logicamente, teatrale) finale.
Nonostante la brevissima durata della pellicola (nemmeno un’ora e mezza) la Wyss riesce a raccontare in modo esemplare il personaggio di Sarah, la protagonista, in tutta la sua complessità: l’unico strumento che Sarah ha per comunicare con il mondo che la circonda (o quantomeno quello che sa usare meglio) è il teatro, inteso come finzione scenica ma anche come dramma e conflitto, in lei presenti come in ogni adolescente ma non con la stessa intensità con cui ritroviamo questi stessi elementi in un opera shakespeariana.
Sarah è terribilmente sola, soprattutto in una famiglia che sente lontana e diversa, tra una madre che sente troppo distante e un padre con cui vive un rapporto al limite del complesso di Elettra. Soffrendo pesantemente la mancanza di un amore come quello di Romeo e Giulietta, di un lutto che possa farle vivere le strazianti vicende di un eroe della tragedia greca o più in generale di esperienze ed emozioni forti come quelle che solo il teatro le dà, la giovane protagonista finisce per inventarsi un immaginario fidanzato suicida, che assieme ad altre piccole e grandi bugie raccontate prima a se stessa che agli altri si mescolerà alla realtà nella sua testa portandola prima a sconnettersi totalmente dal mondo che la circonda per poi terminare nel drammatico finale.
Non vedendo nella sua vita tutti quegli elementi tipici degli eroi tormentati protagonisti delle sue tragedie preferite, Sarah si sente costretta a identificarsi con un personaggio negativo, appunto quel lupo mannaro del titolo, per poi trovare impossibile anche la convivenza con questa sua nuova identità. I comportamenti di Sarah, che si fanno sempre più insoliti man mano che il film procede, sono una spettacolare esemplificazione del muro che separa il mondo del teatro e della tragedia in particolare dalla realtà: un esempio su tutti è il modo in cui la protagonista rende pubblico un segreto molto intimo di una sua compagna di corso, nel tentativo di aiutarla, quasi a voler illustrare i suoi problemi a un’immaginaria platea.
La Wyss decide di non separare in modo eccessivamente netto reale e immaginazione, trascinando lo spettatore nella tragica esperienza della protagonista, fatta eccezione per alcune brevi ma incredibilmente intense sequenze oniriche. Molto d’effetto anche il modo in cui la regista decide di rappresentare le prove e gli esercizi della compagnia teatrale di Sarah, quelli sì nettamente divisi narrativamente e stilisticamente dal resto del racconto. A rendere il film un prodotto più che valido contribuisce poi la magistrale interpretazione della giovane attrice Loane Balthasar, che riesce a portare in scena un personaggio complesso ed emotivamente carico come quello di Sarah al meglio.