Ali Ungar è un anziano interprete in pensione, reso chiuso e scontroso anche dalle tristi vicende familiari che ne hanno segnato l’esistenza. I suoi genitori infatti sono stati vittime dell’Olocausto, e alla sua veneranda età il compassato signore ha deciso di fare quei pochi chilometri che dividono Bratislava da Vienna per andare a chiudere definitivamente i conti con l’assassino dei suoi genitori, un ex-militare delle SS.
L’incipit è semplice ed essenziale: un signore dai modi educati suona alla porta di un grande palazzo viennese, chiedendo di poter vedere il militare nazista che decenni prima durante la guerra ha sterminato la sua famiglia in Slovacchia. Purtroppo gli dicono che è già morto, altrimenti avrebbe provveduto personalmente con la pistola che nasconde nella sua ventiquattrore da impiegato…
Sfortunatamente il resto della narrazione è meno incisivo di questo inizio fulminante, e si perde un po’ nei rivoli di una trama non troppo a fuoco, episodica anzi che no con il suo girovagare nei luoghi di un passato tragico e sempre attuale, alternando personaggi occasionali non memorabili e subplot un po’ improvvisati. Guardando The Interpreter ci è venuto in mente il recente Remember di Atom Egoyan, ma mentre l’autore armeno-canadese giocava a rimpiattino con la storia e le tare sanitarie dei suoi personaggi, qui Martin Sulik sembra indeciso se affrontare davvero di peso cotanta tematica, oppure usarla piuttosto come semplice pretesto per un duetto attoriale che rimane comunque di ottimo livello.
Di per sé Sulik sarebbe uno dei più interessanti registi slovacchi: giusto per ricordare alcune sue opere, lo avevamo apprezzato sia per la forza surreale e le soluzioni visive dei suoi Zahrada e Orbis Pictus nella seconda metà degli anni Novanta, che per la capacità di affrontare anche scottanti tematiche attuali in film più recenti come Slunecni stat (“The City of the Sun”, 2005), tragicommedia alla Ken Loach ambientata fra la classe operaia di Ostava. Ci aspettavamo dunque qualcosa di più da questo suo ultimo The Interpreter, e ci sorprende invece vederlo cadere in uno stile narrativo un po’ fiacco e piuttosto tradizionale, segnato da svolte narrative non sempre ben motivate a livello di scrittura, tanto più che sulla carta erano presenti diversi motivi di potenziale interesse: si veda la combinazione di presenza scenica e prestigio cinematografico messa insieme dal Peter Simonischek di Toni Erdmann e da un classico vivente come Jiri Menzel, rappresentante di punta della nouvelle vague cecoslovacca anni Sessanta sul versante della tragicommedia, ma che nella sua carriera ha inanellato anche diversi interessanti ruoli attoriali; o si pensi ancora alla mescolanza teoricamente esplosiva dello sterminio ebraico con il desiderio di vendetta, aggiornata dalle condizioni socio-politiche dell’Europa centrale di oggi e dal velenoso ritorno di certo antisemitismo. Ma purtroppo il film non decolla mai veramente, e rimane ben saldo “orizzontalmente” su quei livelli di aurea mediocritas da coproduzione europea pensata a tavolino per piacere ai pubblici più variegati di mezzo continente.
Non che Sulik sia un cattivo regista neanche qui, ma si limita al minimo sindacale, ed è come se dimenticasse di poter essere anche un “autore”: l’opposizione caratteriale dei due protagonisti è alquanto schematica (il primo uno scontroso vecchietto che ha dei conti da regolare con la vita e la Storia, l’altro un bohémien in cerca di divertimenti), lo sviluppo e soprattutto lo scioglimento finale del tema centrale (l’“eredità” nazista nelle famiglie normali) non convincono del tutto, ma è soprattutto la sceneggiatura che arranca, limitandosi ad una sequenza di episodi che collegano località turistiche e resort della Slovacchia, adeguatamente illustrate con riprese a tratti cartolinesche.
Capiamoci però: in fin dei conti questo The interpreter non è affatto un lavoro da buttare: si situa perfettamente nella categoria delle opere di attori su temi “acchiappa-pubblico”, buoni per le sale e i cineforum di mezza Europa, e vederlo proiettato nelle sale italiane non sarebbe affatto motivo di scandalo, bensì una interessante variazione nella griglia di “prodotti” presenti nella nostra distribuzione. Ma forse è un po’ poco per quello che tempo fa consideravamo il regista slovacco più promettente della sua generazione.