Larysa è una giovane ragazza ucraina che vive al di fuori delle regole prestabilite del suo piccolo villaggio, desidera fuggire in una grande città, vedere il mondo e godersi la vita con il suo turbolento ragazzo, ma i desideri, per quanto potenti e viscerali, di per sé non bastano per avere la meglio sulla triste realtà.
L’ucraina Marysja Nikitjuk esordisce sul lungometraggio e stordisce con un flusso quasi ininterrotto di erotismo, turbinante violenza motoria, folclore ucraino e affascinanti suggestioni fantastiche. La Nikitjuk fa parte di una numerosa nidiata di giovani e agguerrite registe situate fra Kiev e dintorni, che negli ultimi anni, grazie al sostegno dell’Agenzia nazionale per il Cinema ucraino e all’attento lavoro della nuova generazione di produttori di quel paese (qui a coordinare i lavori l’ottimo Igor’ Savychenko), si sta facendo conoscere con corti e attività di programmazione di notevole ampiezza: molte sono infatti lungimiranti produttrici o lavorano già nei festival nazionali, e bisognerà seguirle con attenzione man mano che arriveranno alla prima opera su lunga distanza, dando così forma concreta e moderna al nuovo cinema del proprio paese.
Se per esempio Marina Stepanska con il suo Strimholov (passato a Karlovy Vary 2017) aveva un po’ deluso le aspettative, questo When the Trees Fall (Koly padayut dereva) colpisce invece pienamente nel segno, trascinandoci fin dalla prima sensualissima sequenza in un tourbillon di passioni e fughe emotive. Il talento esplosivo ha il diritto di prendersi libertà narrative e di fare a meno di eccessivi scrupoli di ambientazione, così che, neanche fossimo in un’orgia da sabba stregonesco, nei primi dieci minuti, prima ancora di conoscerne nomi e volti, vediamo un gruppo di ragazzi e ragazze impegnati contemporaneamente in un vorticoso montaggio di posizioni e angolazioni sessuali che trasmette il grumo di energia anarchica e vitale che i protagonisti non riusciranno ad incanalare funzionalmente nel prosieguo della vicenda. Siamo di fronte a un coacervo potente di forze giovanili che vengono schiacciate dalla miseria della vita di provincia, e provano in modo disordinato e istintivo a dar corpo alle proprie confuse aspirazioni di indipendenza, finendo nei gorghi di malavita, ribellioni fini a se stessi e pacificazioni conformiste. È un gioco di forze e vettori uguali e contrari che la Nikitjuk qui inscena, disegnando sullo schermo delle dinamiche autodistruttive che incanala ora con plongée meditative, ora con montaggi serrati di scene di improvvisa violenza (che da The Tribe in poi sembrano diventate marchio di fabbrica del nuovo cinema ucraino…), ora ancora con una mdp nervosa a seguire i personaggi in interni nella loro costante fuga da responsabilità e oppressioni ataviche.
Larysa verrà a patti con la zavorra tradizionalista impostale dalla famiglia, e invece dell’amore passionale vissuto nel gran mondo si acquieterà col guardiano di porci della porta accanto; il suo turbolento ragazzo proverà a fare il passo più lungo della gamba nel mondo della malavita di provincia, ma dovrà fare i conti con delitti e tragedie più grandi di lui; le anziane immobili alle finestre dei casermoni continueranno a spiare con antica malevolenza la vita vissuta che a loro è stata preclusa e si faranno garanti della vittoria del buon vecchio moralismo di paese; la comunità rom del villaggio, sempre respinta e sempre periferica, opterà per la vendetta privata e continuerà a vivere ai margini del consesso sociale…ma il tutto non viene inserito in un quadretto sociologico da cui trarre facili conclusioni, né si affloscia mai in citazionismi kusturiciani, ché qui manca del tutto lo sguardo sarcastico e minimizzante: per quanto piccoli e insignificanti, tutti i personaggi sono segnati da un marchio tragico indelebile che li colloca quasi al di fuori del tempo. Se proprio volessimo trovare riferimenti, ci verrebbe forse in aiuto certo Jakubisko degli anni Sessanta (da cui il titolo di questo articolo)…
Non bisogna infatti cercare metafore attualizzanti o generalizzazioni di sorta dietro questa drammatica e sanguigna féerie rurale: ché anzi uno dei meriti indiscutibili di questo esordio è che rimane mille miglia lontano dall’attualità problematica del proprio paese. Non si parla di guerra, né di invasioni, né tanto meno si abbozzano facili universalizzazioni socio-politiche: la Nikitjuk investe tutto su un caotico e vitale hic et nunc di energie antropologiche sostanzialmente situate fuori dal tempo. Fra i punti forti della sua visione c’è proprio un dialogo naturale, non forzato ma anzi ottimamente amalgamato, con una dimensione ultra-terrena, fantastica, che senza diventare mai astrattamente new age, fa invece leva su simboli e suggerimenti del folclore slavo orientale: il volo con la sua forza liberatoria, il cavallo bianco simbolo di purezza e libertà assoluta, il rapporto naturale con i morti, che dialogano con i vivi e fanno loro doni per ricordar loro che certi legami non si interrompono mai.
Per completare il titolo, si potrebbe dire che “quando gli alberi cadono” volano le schegge, o si può essere travolti e schiacciati dal peso delle proprie passioni, oppressi dalla legnosa zavorra di usi e costumi ancestrali, ma quello che ci rimane negli occhi è un flusso nervoso e vitale di energie, magistralmente convogliate in un personaggio che sembrerebbe star lì solo a fare da simpatico contorno, ma che invece è fulcro portante della poetica del film e sua via di fuga, quello della piccola peste Vitka: è proprio negli occhioni sgranati della bambina (la meravigliosa, travolgente Sonja Chalaimova), ancora capaci di dialogare con i misteri della natura, ancora aperti sul mondo dei morti con cui riesce a comunicare, che si concentra e prende letteralmente il volo la carica emotiva e sanamente irrazionale di questo travolgente debutto.
Auguri, Marysja, avanti così, continua a far cadere gli alberi.