L’amore degli inizi
“Io ritengo grave che non ci si preoccupi di mettere i ragazzi nella condizione di conoscere la storia di questo Paese che viene fuori in maniera evidente dalla storia del cinema italiano. Un ragazzo non andrà mai a cercare il dvd di Umberto D… Glielo deve dare la scuola, la televisione deve trasmetterlo in un’ora nella quale un ragazzo possa vederlo. Infondo si insegna la religione, perché non insegnare la memoria? Il cinema è la memoria del Paese”.
Con questo forte richiamo alla formazione degli uomini di domani si conclude il primo dei 5 incontri della rassegna “Gli amori degli inizi” durante i quali verranno proiettati i primi lungometraggi dei fratelli Taviani, di Tinto Grass, Florestano Vancini e Gian Franco De Bosio.
La chiacchierata di Moretti con Francesco Rosi, a conclusione della proiezione de La sfida primo lungometraggio del regista napoletano, è tutto un ripescare nella memoria degli oltre cinquant’anni di carriera del regista che crea in Italia il genere del film inchiesta con capolavori come Le mani sulla città, Uomini contro, Il caso Mattei.
Rosi, che riceverà il 14 febbraio l’Orso d’Oro alla carriera, inizia dal capitolo più importante per la sua formazione: l’incontro con Visconti. “Ho lavorato con Luchino a La terra trema che abbiamo girato ad Acitrezza per 8 mesi. Era un uomo molto rigoroso e volle girare il film nei luoghi veri dove Verga aveva ambientato il suo romanzo con le ragazze e gli uomini del posto. Avviò il film come se fosse un documentario tanto che da Roma partimmo con una troupe ridotta “da documentario” dove Zeffirelli ed io eravamo gli assistenti.
Io ero anche segretario di edizione (mi occupavo dei raccordi tra le diverse inquadrature), dovevo disegnare le inquadrature e scrivere quaderni fondamentali: i bollettini che raccoglievano le indicazioni degli obiettivi, le lenti usate e un altro che era un resoconto di tutto quello che era stato fatto sul set, di tutte le inquadrature e le scene girate. Bisognava segnare prima ripresa, seconda ripresa… Di solito i ciak erano 7-8 ma a volte anche 33!. E io dovevo segnare tutto.
Questi quaderni sono stati importantissimi perché mi hanno segnato, mi hanno formato nella direzione di un certo rigore che io tento di ottenere nei miei film da sempre. Un mio film inizia con la ricerca delle location e col contatto con le persone del luogo dove decido di girare.
A lui devo anche l’utilizzo di una miscela vincente tra attori professionisti e attori non professionisti. Nei film di Visconti non esisteva sceneggiatura scritta, provava con gli attori improvvisati ma pretendeva da loro il rendimento richiesto agli attori professionisti. Non consentiva quello che Rossellini e De Sica facevano, cioè catturare la realtà e impadronirsi delle iniziative personali dei non attori. Questo non doveva succedere”.
Poi Moretti gli chiede una riflessione sulla consapevolezza o meno di Visconti di fare film che sarebbero diventati pagine importanti del cinema e Rosi precisa che “Visconti sapeva quello che faceva ed era consapevole che i suoi erano film realisti senza un certo sentimentalismo che era comune a tanti film neorealistici. Nei suoi film non c’è realismo, non c’è indulgenza”.
Altro importante amico e compagno di ben 5 film fu Gian Maria Volontè: “Per andarci d’accordo dovevo entrare io nel suo metodo, non lasciarlo solo nel suo percorso d’immedesimazione con il personaggio. Gli davo le scene man mano che le creavamo con Suso Cecchi D’amico quindi solo quando erano definitive”. Ma la sua preparazione era sconvolgente. “Per preparare un personaggio come per es. Mattei (Il caso Mattei, 1972) si appendeva diverse foto “dell’originale” in camera.
Un giorno, girando in Africa, nella preparazione di una scena a due (che sono le mie preferite) vedevo che stava seduto di fronte al suo interlocutore con i piedi puntati un po’ a papera, lo trovai strano e poi mi ricordai che in una foto Mattei stava davvero seduto così durante quell’incontro realmente avvenuto in quel frangente”.
“Volontè non lasciava mai il set neppure durante le pause, doveva impregnare se stesso dell’atmosfera tanto che una volta gli elettricisti che dovevano cambiare le luci in scena temettero molto per la sua incolumità.
Aveva questa grande attenzione e una preparazione incredibile. Si copiava a mano tutte le battute dei dialoghi fino a quando non sapeva a memoria le battute di tutti. Una volta in Cristo si è fermato ad Eboli Paolo Bonacelli non ricordava più la sua e Volontè si girò verso di me con un sorrisetto e mi disse: “Non l’ha imparata a memoria”.
Era tanto rigoroso che non provò mai a passare dall’altra parte della macchina da presa come in quegli anni fecero suoi illustri colleghi Gassman, Tognazzi e tanti altri; lui voleva fare il suo lavoro e basta”.
Altro grande compagno di viaggio fu l’attore Vittorio Mezzogiorno (padre dell’attrice Giovanna) che era un ragazzo napoletano al quale pensai subito quando scrissi I tre fratelli.
Ma poi il viaggio nella memoria prosegue ricordando gli “innamoramenti cinematografici” per Elia Kassan, Dassen, Friz Lang (primo periodo), Renoir, Blasetti e il rifiuto per quel cinema da “telefoni bianchi”, per quei lungometraggi che “non riuscivano a parlarmi”.
Moretti lo interroga su quando, dopo l’esperienza importante con Visconti, avesse sentito l’esigenza di dirigere da solo e quindi si inizia a chiacchierare de La sfida, il suo primo lungometraggio la cui visione ha preceduto questo incontro e che la platea ha seguito e apprezzato; il film ha un ritmo che non ha risentito del tempo passato (uscì nel 1958) e purtroppo risulta ancora drammaticamente attuale.
Rosi prima precisa che il suo debutto vero e proprio dietro la macchina da presa fu con Camicie rosse. “Visconti promise durante le riprese di Bellissima di mettere mano a quel film ma poi cambiò idea e mandò me”. E ricorda anche che il suo primissimo progetto era la trasposizione del libro La nave morta di Travon che denunciava la storia di una nave mandata a morire per riscuotere il premio dell’assicurazione. “Solo che l’autore non si trovava e io non potevo chiedere i diritti a nessuno”.
Ma poi racconta come nacque quel film, cosa lo spinse: “Nel film cerco di spiegare didatticamente il meccanismo del sopruso. Questo film raccontava una verità sotto gli occhi di tutti ma solo dopo l’uscita i giornali cominciarono a parlare di “guerra del pomodoro”.
Fu buona la reazione del pubblico e della critica; ma poi si torna a quel set napoletano, al sindaco di Napoli Achille Lauro (destra laurina, moretti precisa “un monarchico”) che amministrava in maniera “disinvolta” la città partenopea e che mentre girava nei mercati generali lo fece portar via dalle guardie e gli impedì di girare, tanto che la scena finale dell’agguato a Vito Pollara (il protagonista che entrato nel giro camorristico dei prodotti ortofrutticoli “sbarra” e per questo affronto muore) la dovette girare a Roma.
Rosi poi ricorda la recensione di Moravia al film e lo cita a memoria: “In questo film Rosi non si è preoccupato di dare la parte positiva al personaggio perché l’ha visto solo all’interno del meccanismo tra vecchia camorra e nuova camorra. L’attenzione di Rosi è stata più estetica che morale invece in America, i protestanti americani non si discostano mai dalla posizione morale”. Moravia così voleva sottolineare l’aspetto nettamente negativo di questo personaggio. Poi Rosi prosegue: “Trovai l’osservazione molto pertinente e risposi che la decisione morale stava proprio nella scelta di fare questo film”.
E plaude alla nuova era, al libro di denuncia Gomorra che “ha cambiato il modo della letteratura di trattare l’argomento mafia” e alla trasposizione cinematografica alla quale ha lavorato proprio in questi mesi Matteo Garrone (nel cast Toni Servillo).
La rassegna proseguirà domani con la proiezione di Un uomo da bruciare dei fratelli Taviani e di Valentino Orsini. Incontro Moretti-Paolo e Vittorio Taviani a fine proiezione.