Mamoru Hosoda giunge infine al suo terzo film in qualità di autore, svolta che intraprese nel 2006 con La ragazza che saltava nel tempo, lasciandosi alle spalle la sua carriera di mestierante per franchise, sia in ambito cinematografico che televisivo. Questo Wolf’s children segna la sua definitiva maturazione artistica.

Hana è una studentessa universitaria che ha instaurato una felice relazione con un coetaneo incontrato per caso. Questi è però un uomo-lupo, ultimo discendente del lupo giapponese che venne sterminato in epoca Meiji. Incuranti del fatto, i due proseguono la loro relazione e in seguito hanno due figli, Ame e Yuki. Alla morte del padre, Hana deve fronteggiare il fatto di dover crescere due figli da sola, che per di più sono mezzi lupi, quindi l’unica scelta che le rimane è trasferirsi in campagna, dove i figli cresceranno e matureranno scelte di vita opposte.
Già dal plot è possibile intravedere come il film segua sentieri già ampiamente percorsi, come la rappresentazione della crescita di un (in questo caso due) individuo vissuta attraverso una realtà sociale violentemente perturbata dall’elemento fantastico, che ne mette in luce gli aspetti più contradditori.

Wolf’s children non esula da questo schema, ma il fattore della doppia natura uomo-lupo va a inserirsi e a fare da elemento-chiave in più ambiti. Infatti l’opera non è soltanto un film sulla crescita, ma si prefigge lo scopo (ambiziosissimo) di raccontare la vita di un piccolo nucleo familiare nella sua interezza. Quindi al centro della prima parte del film v’è il rapporto tra la madre e i figli, e le aspre conseguenze della decisione di lei di crescere i figli da sola, senza mai vacillare nella propria scelta. Vengono così toccate tutte le corde di un universale e ipotetico rapporto genitoriale, attraverso una scomposizione per piccoli episodi della vita in campagna, secondo il più classico dei percorsi di accettazione/integrazione.

A questo proposito, appare evidente il fatto che Hosoda non cerca minimamente una costruzione narrativa diversa dall’animazione tradizionale, e al contempo rifugge i tempi scenici classici tentando di uniformare il ritmo con il montaggio, trovando sin da subito la perfetta gestione delle tempistiche, cosa che gli permette di usare i salti temporali senza preoccuparsi di avvisare lo spettatore, perché questi, ormai entrato nel mood del film, è messo in grado di trovare una logica implicita nei vari cambiamenti. In questo è anche aiutato dalla tecnica utilizzata. Il character design di Sadamoto (apprezzato per Neon Genesis Evangelion e già collaboratore di Hosoda nel suo primo film) è chiaro e semplice, e cambia durante l’avanzamento del racconto in maniera progressiva: a ogni singola inquadratura i bambini hanno qualcosa di diverso, sono impercettibilmente cambiati. Inoltre l’uso esclusivo del disegno tradizionale e il rifiuto a priori della computergrafica hanno concesso all’animazione un vero esito quotidiano.

La sfera della quotidianità è proprio ciò che ricerca il regista con la sua parcellizzazione del racconto, in modo da attingere di nuovo dall’ambito dell’universale quegli episodi che sono i comuni denominatori della crescita di ogni persona, in modo da trascinare lo spettatore nella maturazione dei due protagonisti (e anche della madre) smuovendo la sua interiorità e facendo leva sulla linearità della trama per far tornare a galla i più comuni e infantili sentimenti di immedesimazione. Hosoda lascia da parte le lezioni dell’animazione più recente per rifarsi, almeno in parte, a un cinema più vecchio ma mai dimenticato, quello di Ozu: Wolf’s children non ha struttura narrativa climatica, non vi sono svolte né cambi di ritmo nello sviluppo. Il fatto che tutto sia trattato in modo omogeneo (insieme all’uso sapiente dei tempi comici e musicali) veicola una rappresentazione di vita vissuta e di vera e propria quotidianità, nonostante la storia sia fondata su un preponderante elemento sovrannaturale. Alla fine dei conti però questo elemento fantastico, come si diceva prima, va a toccare tutti gli ambiti del film, partendo dai dubbi di una madre che non sa come crescere i figli, per arrivare al peso della responsabilità che grava su ognuno di scegliere per il proprio futuro.

Ecco, Wolf’s children è soprattutto un film sulla possibilità di scelta e sulla scoperta di se stessi (di nuovo un collegamento con la dialettica tradizionale), sull’inserimento di sé all’interno di un contesto più grande e sul modo di relazionarsi con esso. La vita dei tre personaggi è totalmente indifferente alla società civile, e trova una propria affermazione soltanto nella vita di campagna, dove il contesto sociale va a formare una famiglia allargata, piuttosto che una comunità. Da questo emerge un’esistenza ai margini, che è specchio di un rifiuto dell’ufficializzazione e della scelta di uno stile di vita basato su una concezione arcaica della libertà. I due genitori non si sposano perché lui non ha documenti, eccetto la patente ottenuta chissà come (ecco spiegata la decisione di non far pronunciare mai il suo nome); la madre partorisce da sola e non sottopone i bambini alle vaccinazioni per paura delle conseguenze della loro doppia natura. Tutto ciò riflette il rifiuto per la prassi moderna dell’ufficializzazione e rivela la predisposizione per una via semplice lontana dal logorio frenetico della città: non c’è bisogno, in sostanza, di un riconoscimento formale da parte dell’autorità costituita per vivere; inoltre la vicenda non ha precise collocazioni spaziotemporali, di modo che essa non si ancora a un contesto sociale specifico.

In conclusione, Wolf’s children è un film che affronta delle tematiche complesse, ma ha il suo più grande merito nel farlo con una ammirabile leggerezza. Certo, la sfera della quotidianità è idealizzata ed edulcorata, e il paragone con la dimensione familiare di Ozu potrebbe risultare un po’ forzato, però questa nostra comparazione riguarda l’approccio registico alla raffigurazione più che la raffigurazione visuale vera e propria: si potrebbe dunque affermare che Hosoda non ha girato questo film perché fosse “adulto” nei suoi contenuti, ma perché fosse tale nel suo rapporto con il mezzo cinematografico.