Presentato nel 2013 al Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, il film ripercorre le tappe della vita e della carriera di Alejandro Jodorowsky negli anni ’70, cogliendolo nel suo vano tentativo di portare sullo schermo il romanzo Dune di Frank Herbert, per dare vita a un nuovo concetto di esperienza cinematografica.
Quando a Jodorowsky venne l’idea di girare un film tratto da Dune, a stento sapeva cosa fosse quel testo. “Non avevo mai letto Dune, ma avevo un amico che mi parlava solo di quanto fosse fantastico” – dice il regista, all’epoca al vertice della sua carriera, avendo diretto nel giro dei tre anni precedenti quelli che ancora oggi, a opinione di chi scrive, rimangono i suoi massimi capolavori, ovvero El topo e soprattutto La montagna sacra. Ricevuto sulla fiducia l’ok di Michel Seydoux, Jodorowsky lesse il libro e in quel momento iniziò il suo progetto: non una semplice trasposizione, ma una vera e propria reinterpretazione del tutto, atta a portare su pellicola un film che “avesse gli stessi effetti degli allucinogeni, ma senza allucinogeni”, che spazzasse via ogni aspetto meramente letterario per lasciare solo qualcosa di mitico e spirituale, tanto da ipotizzare una durata di dieci ore.
Ma nonostante l’evidente megalomania del progetto, deducibile non solo dalla durata prevista ma anche dallo scopo e dall’approccio al progetto stesso del regista cileno, egli riuscì a reclutare un gruppo dal coefficiente artistico impressionante: Giger, Foss e il fumettista Moebius per il character design, O’Bannon per gli effetti speciali, mentre alcune parti sarebbero state affidate a Orson Welles, David Carradine, Salvador Dalì e Mick Jagger, ingaggiando poi gruppi tra i quali i Pink Floyd e i Magma per la colonna sonora (l’idea originale prevedeva un gruppo diverso per ogni ambientazione). Jodorowsky portò avanti il progetto facendo affidamento sul talento di ognuno, attraverso i due anni di una lunga pre-produzione, convincendoli dell’importanza dell’opera e del suo fattore rivoluzionario, tenendo un discorso motivante all’inizio di ogni giorno di lavoro e appellando continuamente i collaboratori con il nome di “guerrieri”, fatto che oggi egli ricorda con un minimo di imbarazzo, accorgendosi di quanto al tempo fosse esagerato e pomposo.
Ma quello che più sbalordisce di questo documentario di “filologia cinematografica” è la passione per il cinema, e più in generale per l’arte, che Jodorowsky riesce a trasmettere. Un ultraottantenne vivace e vitale come pochi, il regista racconta una storia fatta di aneddoti (alcuni decisamente improbabili per non dire impossibili) che donano alla ricostruzione di quel sogno di quaranta anni fa una strana attrattiva (nonostante si sappia già quale sarà l’esito).
In questo modo il racconto diventa molto piacevole da ascoltare, e Frank Pavich, produttore di professione, estraneo alla vicenda e regista occasionale (alle spalle ha solo un documentario sulla musica di New York) da un lato riesce a calare lo spettatore nel magnifico racconto di quel sogno ponendolo al fianco dei protagonisti/narratori, dall’altro, essendo estraneo al tutto, riesce a presentare questo not-making-of con uno sguardo critico. E lo fa anche grazie al sottile lavoro di montaggio che contrappone ai divertenti aneddoti di Jodorowsky la versione di altre persone convolte, come ad esempio un’Amanda Lear che contraddice ridendo imbarazzata i fin troppo fantasiosi resoconti dell’autore circa i rapporti tra lui e Dalì. Questa scelta di Pavich di spezzare il ritmo inframmezzando spezzoni di interviste di altri collaboratori si rivela vincente, in quanto egli riesce così a centellinare ottimamente la verve del fantasioso regista, caratterizzata da una grande intensità tanto nel suo umorismo autoironico, quanto nei momenti in cui parla del suo disprezzo per “i ragionieri” delle major americane, troppo attaccati al denaro per osare finanziare un progetto della portata di Dune.
Intensità che traspare da come Jodorowsky, a distanza di così tanti anni, cerca di rendere a parole l’esperienza cinematografica che voleva realizzare, per permettere a chi ascolta di comprenderla al meglio, facendo affidamento su storyboard, bozzetti che sfoglia con mano tremante e nervosa, riuscendo ancora ad agitarsi, nonostante l’età e il tempo trascorso, indice di un entusiasmo mai sopito. Jodorowsky ha ancora passione per quel progetto, che non solo dovette abbandonare per mancanza di finanziamenti, ma che vide strapparsi dalle mani dalla figlia di De Laurentiis. L’artista cileno racconta poi, mettendosi a nudo con sincerità, di come si sentì triste quando seppe che il regista sarebbe stato Lynch (“l’unico che poteva farcela, forse anche meglio di me”) e della sua felicità durante la visione del film, che definisce “orribile”, come lo stesso Lynch del resto, che vide deturpata la sua pellicola da un producer’s cut ignobile.
In conclusione, Jodorowsky’s Dune, come qualsiasi documentario del genere, rappresenta un tributo a qualcosa di cui si rimpiangerà per molto l’infattibilità e ha poco di interessante per chi non conosce Jodorowsky come artista in nessuno dei numerosi campi in cui si è cimentato. D’altro canto però può essere visto anche per comprendere l’influenza di un film mai fatto sulla fantascienza moderna, per permettere un ragionamento a tutto tondo sullo sviluppo del cinema dagli anni ’70 in poi. Nicolas Winding Refn, regista di film non trascurabili (Valhalla Rising e Solo Dio perdona) e amico personale di Jodorowsky, che quando questi lavorava su Dune era appena un bambino, sostiene che se quel film fosse stato realizzato nei tempi previsti, uscendo così tre o quattro anni prima di Star Wars, avrebbe cambiato il modo di intendere sia il cinema d’intrattenimento sia la fantascienza moderna. Non lo sapremo mai, ma vista la sconfinata ambizione dell’attempato cileno (“io voglio vivere trecento anni, ovviamente non ce la farò, ma intanto voglio farlo”) chi scrive non si sente di escludere a priori la possibilità che l’elemento rivoluzionario di Dune non trovi sbocchi nelle successive opere di Jodorowsky.