Ricordo perfettamente quando vidi The Tree Of Life, nel 2011. Ricordo le emozioni che ho provato, la commozione, il senso di esaltazione e di meraviglia di fronte a quelle immagini, a quel racconto. All’epoca avevo anche visto da poco Melancholia, di von Trier, e mi ero trovata immersa in quei due film complementari, un unico pacchetto di immagini spettacolari e di visioni opposte dell’umanità e dei suoi scopi.
In entrambi i casi ero uscita dalla sala sentendomi una persona diversa, non migliore ma sicuramente cambiata, in qualche modo che non sapevo identificare. Che poi è quello che si cerca quando si va al cinema, no? Avere un’esperienza, quale che questa sia, che sia potente, che ti segni, che ti faccia spalancare gli occhi di fronte alle meravigliose capacità del cinema.
Voyage of Time: Life’s Journey si può considerare una specie di spin-off di Tree Of Life, sebbene il suo work in progress sia in iniziato molto prima, addirittura nel 1979. È opportuno specificare che esistono due versioni differenti della pellicola: quella di 90 minuti narrata da Cate Blanchett (presentata qui a Venezia), e quella di 40 minuti appena, narrata da Brad Pitt che compare anche in veste di produttore, e che verrà proiettata solo in IMAX. Vale la pena fare questa distinzione? Evidentemente sì, dal momento che le immagini sono l’effettivo, e unico, punto di forza di questo lavoro.
Nonostante il profondo amore per Tree Of Life, sono stata scottata, come tanti, da To The Wonder, che ne pareva la maldestra parodia, e questa volta sono entrata in sala aspettandomi niente di più di quello che in effetti ho visto: immagini spettacolari, corredate da musiche evocative, e con il voice over misticheggiante di Cate Blanchett.
Forse sono io che ho perso il senso di “wonder” per l’appunto, ma non sono riuscita a vederci niente più di una perfetta e fredda costruzione, già ampiamente sperimentata dallo stesso regista, e con risultati nettamente migliori. Non c’è più la meraviglia di fronte all’infinita piccolezza dell’uomo rappresentato nella sua evoluzione cosmica, svanito il potere evocativo di Cate Blanchett, che pare qui più una Galadriel in vena di chiacchiere (devo essere onesta, alla millesima invocazione “Mother” ho cominciato a spazientirmi).
Quello che rimane sono delle riprese meravigliose, ma non nell’accezione più vera e profonda del termine. Un brutto film? Assolutamente no, ma sono ormai lontani i tempi in cui Malick mi cambiava la vita.