È uscito il 15 settembre il quarto film diretto da Angelina Jolie, tratto dall’opera autobiografica dell’attivista cambogiana Loung Ung, che è stata anche co-sceneggiatrice e produttrice esecutiva del film.
Il libro Il lungo nastro rosso (First They Killed My Father: A Daughter of Cambodia Remembers), pubblicato nel 2000, racconta l’epopea straziante della giovanissima Loung. Il suo inferno personale ha inizio in una data precisa: è il 17 aprile 1975, lei ha solo cinque anni. I Khmer Rossi conquistano la città e tutta la Cambogia piomba nell’incubo di un regime brutale. La bambina si trova catapultata in un esodo tanto improvviso quanto incomprensibile, costretta ad abbandonare i ricordi della sua infanzia felice a Phnom Penh.
Fino a quel momento Loung ha vissuto circondata dall’affetto dei genitori e dei fratelli. Una famiglia normale, amorevole, capeggiata dal padre ufficiale del governo. Ed è proprio la posizione del padre a metterli in maggiore pericolo: la famiglia fugge la vendetta di Pol Pot, fingendosi parte della classe operaia e trova un primo rifugio in un campo di lavoro. Qui il trattamento inumano riservato ad adulti e bambini li spinge a separarsi, alla ricerca di un’accoglienza migliore. Ma nella Cambogia di Pol Pot non c’è possibilità di scelta, il regime è la sola e unica opzione. La famiglia di Loung si trova a lottare contro la morte, la fame e la fatica, nella speranza utopica di potersi un giorno riabbracciare. Non tutti arriveranno a quell’abbraccio.
Le vicende sono raccontate attraverso gli occhi di Loung, che spesso non comprende appieno i fatti che sta vivendo. A volte gli eventi sono intermezzati da ricordi della sua infanzia o da visioni oniriche che ci mostrano il destino degli altri personaggi. L’utilizzo univoco del suo punto di vista si rivela una scelta non solo stilisticamente interessante ma anche uno strumento che da forza e pathos alla narrazione. Ricordiamo in particolare il momento in cui la bambina si trova sotto la protezione dell’esercito vietnamita, ma improvvisamente un nuovo attacco dei Khmer la costringe a scappare, insieme a tanti altri. Nel bosco, assiste inerme alla scena mostruosa dei corpi che saltano in aria, fuggitivi come lei feriti o uccisi nel giro di pochi secondi. Quelle mine le aveva innescate proprio lei.
La protagonista Sareum Srey Moch è un’interprete straordinaria; i suoi occhi espressivi e il suo corpo ossuto e fragile reggono l’intera narrazione, che quasi non ha bisogno di parole (tutti i dialoghi sono in lingua khmer e raramente in francese). Jolie cerca di costruire un racconto delicato e sincero, disegnando un contesto politico complesso, in cui la colpa non è interamente riversata su Pol Pot ma include la officiosa campagna di bombardamenti promossa da Richard Nixon e Henry Kissinger.
Senza pretendere di effettuare un’analisi politica degli eventi, che richiederebbe uno studio specifico, è impossibile non riconoscere al film il merito di aver riportato la luce sul genocidio cambogiano. La regista tocca un tema così caldo con grande pudore e lo fa soprattutto – come lei stessa ha dichiarato – per omaggiare le radici cambogiane del figlio Maddox.
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