Non avrebbe senso contare quanti e quali film di Hong Sang-soo si sviluppano a partire da ambientazioni e contesti minimali nelle vicinanze del mare, di un fiume o anche solo di un ruscello. Per il regista coreano è metaforicamente il genuino rito di passaggio, quell filmare sempre una terra scivolosa sotto ai piedi, con un corso d’acqua che esprime un passaggio, uno scorrere che porta via tutto.

La simbologia immediata e naïf – come del resto in buona parte del cinema asiatico – non è chiccheria manieristica, ma il modo più vicino di avvicinarsi al senso del poetico, quel poetico che è la vita del protagonista sempre legato alle istanze materiali, per l’appunto, genuinamente. Vicino allo scrosciare delle correnti è anche la stessa persona di Hong Sang-soo, che presenta a Locarno 71, dopo l’avventura franco-tedesca, Gangbyun hotel, la seconda delle fatiche di quest’anno (l’altra è Grass) a ben tre anni di distanza dal Pardo d’Oro ricevuto per Right now, wrong then. La struttura duplice si svela anche qui, non di tratta di un vero sliding doors quanto di due storie che si intrecciano rispecchiandosi ma rimangono fondamentalmente separate e opposte; sono le storie di un vecchio poeta che sentendo appropinquarsi la morte chiama al proprio capezzale i figli, e di una giovane donna (la solita Kim Min-hee, compagna-musa) che chiede il supporto di un’amica dopo la problematica conclusione di una relazione.

Tutti i film di Hong Sang-soo parlano di morte, della morte e del cinema nei suoi lati più silenziosi. Qui la prima viene tirata in ballo in modo diretto, ma è quello che resta a interessare il nostro, la miriade di avvenimenti che il poeta e la ragazza di lasciano alle spalle. Come nel malamente già accantonato Geu-hu, quanto viene riportato sullo schermo non è altro che il risultato di un filtraggio, di frammenti isolati che passano attraverso le maglie filmate da Hong Sang-soo e vanno a formare la pellicola per via negationis. Più che un lavoro di sottrazione però il film è un lavoro sui rapporti – non quelli umani, ma intesi come tutto ciò che è relazione – che emergono da una vita qualunque presa ad esempio. Gangbyun hotel significa l’albergo presso il fiume, cioè il riparo fermo appena accanto a un modificarsi continuo, un’incertezza che non ha ratio, concetti, categorie. Per una volta viene affrontato un lemma estetico e teorico di petto, di una chiave interpretativa del suo cinema viene fatto cinema, trasportandone la dimensione a una realtà fattuale. Un “rapporto” è fatto soggetto dell’opera in una maniera tale da mettere in evidenza i frammenti.

Il frammento è la connessione, la relazione, poiché a Hong non interessano i soggetti, le cose, ma il confusionario marasma di rapporti che i suoi personaggi instaurano l’uno con l’altro che così facendo si definiscono reciprocamente. Il poeta, come la donna, sono un insieme mai ordinato di frammentazioni legate fra loro ma non precisamente. Ragionando quindi più per linee che per i punti da esse collegate, in un cambio di prospettiva di grande forza, la semplice messa in scena in b/n che elimina le distrazioni così espone immagini prive di potenza visiva o di complessità, forzando qualunque spettatore a leggere il film nelle transizioni e nei collegamenti tra i suoi modesti affreschi piuttosto in questi ultimi. I due protagonisti infatti mettono in scena la più grande paura a cui vuole dare adito il regista, non tanto la morte quanto la figura mediante la quale essa viene vista, ovverosia la connessione effimera, quel cordone inutile che, sfiorandosi partecipando allo stesso film senza mai influenzandosi a vicenda, questi stabiliscono.

Per questo motivo ha mollato le varie decostruzioni più critiche, socialmente parlando, ed è ritornato a una non-narrazione più “esistenziale”, molto meno concreta in verità di quanto non appaia, permettendosi così di ritornare a trattare il tema che lo affascina dall’inizio della sua filmografia, quello della negazione, o dell’ignoto, detto volgarmente. La sua proverbiale ripetitività, cioè il fare sempre lo stesso film declinandone le variazioni, sondando le differenze nelle riproposizioni di un medesimo fattore, mette in luce un lambire quel mondo di dissoluzione dal quale i personaggi di Hong Sang-soo fuggono sempre. La morte è il farsi nulla delle relazioni, quindi, di tutte le tipologie di costruzione, cinema incluso, anzi, il primo incluso. Hong Sang-soo ci ricorda sempre che stiamo guardando un film, anzi è come se fosse lì con noi – in quest’occasione la sua presenza è anche fisica, nel corpo del figlio minore al quale attribuisce le sue fobie intorno al rapporto con l’altro (nella fattispecie quando rappresentato dalla donna) e riguardo all’essere regista, palese quando lo fa descrivere a uno dei suoi personaggi come “disciplinato, né un autore, né un attrattore di masse”. Questa consapevolezza ci rimanda al carattere più spurio del suo cinema, quello che vuole sempre essere comunione con lo spettatore, vuole insinuarsi nel carattere più intimo senza fermarsi allo s-montaggio intellettuale e concettuale.

Il cibo e l’alcol svolgono sempre quella stessa funzione – su cui non ha più senso spendere righe – fin dai primi corti sperimentali e bruttini. La funzione della convivialità, della dimensione che accorpa in un unico organismo i vari personaggi, catapultandoli in quel mondo artificiale che fa a sua volta da corpo anche al cinema, definito sempre come “quell’arte essenziale” dal sudcoreano, a metà fra contingente e l’essenziale in un territorio proprio. Le giornate che si ripetono uguali, appunto tra banchetti e generose bevute, non hanno a che fare con il tempo in sé quanto piuttosto con quel senso di imprigionamento (una nuova figura realmente recente, è riscontrabile negli ultimi tre lavori antecedenti a questo) che gli perviene dall’indeterminatezza inimmaginabile che sta al di là. Il montaggio alternato che illustra della lettura della poesia, una delle poche concessioni a quel tipo di elaborazione registica, ne evidenzia le pareti e le catene: i personaggi non escono quasi mai dallo hotel e quando lo fanno si stagliano contro una coltre di neve così bianca, via saturazione luminosa, che è impossibile per chi guarda comprenderne le dimensioni, ribadendo dunque l’idea di vuoto.

La poesia in questione parla di una misteriosa organizzazione che imprigiona le persone la cui ultima speranza riposa sul fatto che alcuni sembrano capaci di non essere soggiogati, mentre l’inizio e la fine parlano appunto di neve, incorniciandola. Non serve parlare del significato a cui si vuole alludere questa organizzazione (non a caso il velare, anche l’evidente, è uno degli espedienti di massima raffinatezza in questo tipo di film), esattamente come non serve ribadire come ogni film di Hong Sang-soo sia sempre da vedere almeno una volta, poiché al suo centro v’è sempre il cinema, quello vero.

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