Illang: The Wolf Brigade è l’ambiziosissima versione live action dell’omonimo capolavoro dell’animazione nipponica, cui la mano di Kim Jee-woon apporta il solo pregio della spettacolarità, seppellendo sotto una scrittura che non approfitta delle nuove coordinate geopolitiche la ricchezza di un soggetto che, nonostante l’età, non ha ancora finito di dire quel che ha da dire.

Intimorite dalle mire espansionistiche di Cina e Giappone, nel 2029 le due Coree hanno completato l’unificazione indispettendo anche Russia e Stati Uniti, che hanno imposto al Paese pesanti sanzioni e embarghi. L’opinione pubblica è divisa e un gruppo terroristico, la Setta, opera nell’ombra per tornare allo status antea. Per far fronte all’emergenza, il governo ha istituito una nuova Unità Speciale, dotata di mezzi e poteri straordinari: a questa appartiene Joong-KyunGang Dong-won –, recentemente coinvolto in un attentato di una liceale kamikaze. Roso dal senso di colpa, approccerà la sorella maggiore di lei, tale Yoon-hee, – Han Hyo-Joo – nel tentativo di fare ammenda, restando invischiato in un complotto che minaccia la sicurezza nazionale.

Illang: The Wolf Brigade

Non è la prima volta che Kim si confronta, in tono più o meno faceto, con la Storia del suo Paese: i senzapatria del western dagli occhi a mandorla Il buono, il matto, il cattivo assaltavano convogli della Mantetsu nella Manciuria occupata, mentre l’ “emissario” – il titanico Song Kang-ho – di The Age of Shadows faceva il triplo gioco per strappare la penisola dalle grinfie del Sol Levante. Questa volta però fa un balzo in avanti e proietta la storia nel futuro, trasformando quella che Mamoru Oshii aveva concepito come ucronia in distopia: la Corea “unita” del duemilaecredici in luogo dei (paurosamente) plausibili anni Sessanta del Giappone agli albori del miracolo economico.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Illang non cerca una collocazione all’interno della Kerberos Saga, l’universo fantapolitico di Oshii inaugurato nel 1987 dal lungometraggio Akai megane – suo primo film dal vivo – ed esauritosi, benché permangano zone d’ombra, nel 2010, influenzando alla pari del franchise di Ghost In The Shell l’immaginario fantascientifico collettivo – si pensi agli FPS Killzone targati Guerrilla Games. Di questo sconfinato arco che si è ramificato nei più disparati media, dalla radio al fumetto, Kim riprende solo un tassello, il più noto, in cui il maestro giapponese, che aveva vissuto in prima persona l’esperienza del movimento studentesco, aveva condensato tutta la sua delusione per un Paese che aveva scelto di non cambiare: Jin Roh – Uomini e Lupi (1999), affidato alla regia del pupillo Hiroyuki Okiura – sarebbe tornato alla ribalta nel 2011, con il toccante Una lettera per Momo.

Jin-Roh - Uomini e lupi
“Jin-Roh – Uomini e lupi” (1999), di Hiroyuki Okiura

Il coreano sradica quindi la vicenda dal suo humus approntando un surrogato convincente nei suoi punti fondamentali ma apolitico, che non capta le riserve ideologiche che pure si continuano a nutrire, neanche troppo sotto pelle, nel dibattito odierno sulla riunificazione. Kim, che è blockbusterista fin nel midollo ma non ha mai avuto paura di osare, qui preferisce giocare sul sicuro lasciando quasi intatta la trama originale, modificandola quanto basta per confezionare un prodotto facilmente digeribile. Certo le sequenze memorabili – la fuga dalla Seoul Tower, o ancora la resa dei conti nelle fogne – Illang ce le regala, anche quando si tratta semplicemente di omaggiare Okiura – e lo fa spesso – ricalcando le sue scelte registiche, ma il tono ostentatamente melodrammatico dei dialoghi impedisce di goderne: sappiamo che si tratta di un intervallo, e che tra poco torneremo alla routine degli intrighi di potere, che vengono peraltro svelati in anticipo facendo sfumare quel minimo di suspense che si era creata. Decisamente il modo più scontato di mettere a frutto la fotogenia dei divi del cast, cui invece ci era piaciuto in passato veder assegnati ruoli sopra le righe – come per esempio a Lee Byung-hun in A Bittersweet Life.

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Kim mantiene la metafora della fiaba di Cappuccetto Rosso, la versione non edulcorata dai fratelli Grimm in cui la piccola si ciba a sua insaputa della madre, indispensabile alla comprensione dello statuto degli uomini-lupo e del rapporto del protagonista maschile con la controparte femminile. Persino la famosa chiusa – «Noi non siamo uomini travestiti da cani, siamo lupi travestiti da uomini» – è parafrasata dal comandante dell’Unità Speciale alla povera Yoon-hee, allorché realizza di essere stata una sprovveduta a pensare di poter ingannare il militare. Citazione che suona a dir poco fuori luogo, visto che poi il cineasta giustappone un lieto fine che mina il senso di quella stessa metafora che aveva scelto di conservare.

A fronte di un comparto scenografico e costumistico di prim’ordine e di scontri a fuoco come sempre sopra la media, Illang: The Wolf Brigade sarà anche riuscito a ottenere l’approvazione di Oshii ma non convince, né in sé e per sé né, tantomeno, se paragonato all’opera di partenza. E dire che Kim Jee-woon aveva tutte le carte in regola per dimostrare il contrario. Una bella occasione sprecata.