Sembra ormai una tappa obbligata quella di proporre un adattamento di una delle opere Lindqvist per l’ultima generazione di cineasti scandinavi, e Ali Abbasi, alla seconda esperienza dopo Shelley – opera prima che fa il verso a Rosemary’s Baby sorretta da un’idea tanto efficace quanto fragile ma con numerosi alti e bassi – non ha intenzione di fare eccezione proponendoci una sua rilettura del racconto Gräns, vincendo poi il premio di categoria nell’Un certain regard di Cannes 71 e aggiudicandosi una nomination-marchetta agli Oscar. Arrivato nella sale nostrane un po’ a singhiozzo, non fa rimpiangere troppo una copertura territoriale tutto fuorché uniforme grazie al doppiaggio pessimo, ma, esattamente come il suo predecessore, in una discontinuità abbastanza marcata trova più di uno spunto interessante.

Come in Lasciami andare di Alfredson (quando sapeva ancora cosa adattare e cosa no), un elemento sovrannaturale si fa strada nella Svezia di oggi, sollevando questioni sul significato di umanità e diversità. La diversa è Tina, doganiera portuale dal fiuto sovrumano, capace di percepire persino le sensazioni di chi le passa accanto, che eppure vive ai margini, in una capanna isolata in mezzo alla natura, brutta, semideforme, schifata e mal tollerata dai colleghi e l’uomo con cui condivide la casupola (tutto preso dai suoi cani da competizione) a causa dei suoi tratti scimmieschi. A dare il via alla narrazione principale e agli sconvolgimenti è l’incontro con Vore, un uomo che le assomiglia moltissimo che le ispira reazioni contrastanti, da un lato attrazione e curiosità, dall’altra sospetto – lei sa che è colpevole, l’ha fiutato, ma non sa ancora di cosa: il suo odore è dissimile da quello delle altre persone, è quasi identico a quello di Tina.

La risposta è nell’aria fin da subito: nessuno dei nostri due protagonisti è umano, ma Vore sembra sapere qualcosa in più, avere un grado di consapevolezza maggiore rispetto al mondo che lo circonda e il suo ruolo in esso, lontano dall’anormale routine di Tina. Abbasi gira intorno a questa implicita certezza e più in generale in tondo per tutta la prima parte di pellicola, focalizzandosi sull’architettura di una narrazione fin troppo densa e disponendo tutti i tasselli per poi dedicarsi alla pars destruens nella seconda e più voluminosa sezione; non c’è nessuna divisione formale nelle diegesi di Border, ma la messa in scena risente lo stesso di un approccio scolastico, distante persino dallo sperimentalismo pretestuoso di Shelley, sia in ambito tecnico che nella costruzione dell’azione. A questa seconda categoria viene dedicata comunque molto più attenzione, il film si esaurisce nel suo svolgimento fino a far scivolare in secondo piano il lavoro registico a beneficio di una sceneggiatura (scritta direttamente da Lindqvist) invadente nella volontà esplicita di non adattarsi al nuovo medium, preferendo allagarne le maglie per restituire con fedeltà il soggetto iniziale.

Abbasi vive di sequenze isolate e giustapposte senza una vera armonia nell’impostazione del film, alla radice della discontinuità cui si è accennato: proprio qui sta il più grande difetto di Border, al cui confronto gli elementi della piccola tirata di cui sopra perdono significato, ovvero non riuscire mai ad abbracciare con il suo discorso i temi (ambiziosi) che mette nel mirino. Il nucleo portante è sempre l’invasione dell’estraneo, di un qualcosa di profondamente e costitutivamente diverso nella sfera umana, con le sue regole sempre più stringenti. Tina è senza identità finché Vore non le svela la verità sulla sua natura, aprendola alla possibilità di un’autorità finora rimasta fuori dalla sua vita in grado di dirle chi è e sarà. Non lo è stato suo padre, malato di Alzheimer ma elusivo anche da sano, non è lo è stato il compagno che non la considera, non lo è stato il microcosmo che la ospita che non la distingue da un cane antidroga. Il confine del titolo riguarda proprio questo genere di riflessione, cioè il separare cosa è umano da cosa non lo è e in che modo, distinguere il naturale dall’artificiale e con quale metro. Tina ha introiettato alcuni codici di comportamento contro i quali non riesce ad andare contro ma il suo corpo urla tutt’altro, esige rispetto per la sua integrità.

E Abbasi chiama se stesso a un’operazione fin troppo complessa, raccogliendo più di un punto con le varie questioni secondarie, non riuscendo però ad andare al cuore del suo film, deviando malamente. Tina risulta chiaramente un personaggio positivo ed edificante, lei è più umana di tutti gli altri, pur non appartenendo biologicamente a una razza che viene descritta come di pedofili, egoisti, capaci solo di prevaricare il prossimo per ottenere piacere. Ma davvero questa semplificazione può andar bene per parlare di umanità e animalità nel senso più ampio del termine? Insomma a ogni input intrigante fa da contrappeso un output monco oppure frivolo. La brutalità con cui viene messa in scena la scoperta della diversità e la sua affermazione rimane impressa, ma sembra che il nostro sia rimasto invischiato nella genesi del suo pensiero, incapace di adattarsi e darsi una prosecuzione oltre la miriade di suggestioni che offre – su tutte, il ribaltare maschile e femminile nel tentativo di estendere il raggio d’azione della riflessione fino a disturbare lo spettatore, togliendogli anche l’ultimo dei punti fermi. Appunto, a tratti riesce a colpire, a tratti no.

Border nel complesso si conferma una visione tutto sommato interessante, anche se è chiaro che nel richiamarlo alla mente dopo l’esperienza al cinema scema l’apprezzamento, come succede si solito per quelle opere che non possono fare a meno di rivelarsi delle mezze occasioni sprecate, che non rendono quanto promettono. Manca chiaramente un passo in più, la capacità di osare, non tanto a livello narrativo, dove vengono offerte parecchie accelerate degne di nota e tutti i nodi vengono al pettine con precisione chirurgica, al di là del tutto, in una solida climax, ma proprio a livello cinematografico. Ali Abbasi è partito “fregiandosi” già del titolo di autore, cosa che chiaramente non è (e, per dirla semplice, per diventarlo ne deve mangiare di polenta ancora, secondo il nostro parere, inutile come sempre) e lo dimostra con un mise rigida e didascalica, smorzata dall’inseguimento furioso di tutte le divagazioni del caso senza riuscire a tenere la barra dritta, ad accedere lì dove aveva s’era proposto di fare. È sempre facile per un film del genere, che smania per ricevere l’etichetta di originale e straniante, scivolare lemme lemme nel sottobosco della normalità. Border ciononostante non è un film destinato irrimediabilmente all’anonimato nel suo coacervo di tanti piccoli pregi e tanti piccoli difetti, un po’ dipenderà dall’evoluzione di Abbasi, un po’ da quanto se ne parlerà in futuro, appartenendo l’opera in questione a quella categoria di film non certo diversi da tutti gli altri ma che possono apparire tali e che piace indebitamente esaltare come “pregni di significato” a quanti non hanno mai visto un film vero.