Le piattaforme streaming hanno fatto anche cose buone. Una di queste è l’aver dato a Nicolas Winding Refn carta bianca per un progetto televisivo à la Refn. Più registi, dalla vocazione più o meno autoriale, hanno presentato progetti per Netflix ad esempio, o per altre emittenti che avrebbero distribuito il prodotto unicamente sul piccolo schermo, sapendo cogliere benissimo le differenze del mezzo e lavorando di conseguenza per partorire qualcosa di interessante, a partire dai fratelli Coen per finire con Bruno Dumont, dimostratosi l’assoluto maestro di questa specialità in due differenti momenti: P’tit quinquin e Coincoin et les z’ìnhumain.

NWR però è un po’ hipster e sceglie/si fa scegliere da Amazon Prime Video, presentando in streaming un progetto che sembra costruito a bella posta per questo genere di distribuzione, essendo a sua volta una sorta di flusso univoco, diverso sia da un film (dura quasi tredici ore e sfrutta molto bene la divisione in puntate) che da una serie TV (non ha di fatto una trama perché la sua narrazione è priva di cambiamenti effettivi), come un continuum nel suo presentarsi allo spettatore, non del tutto ciclico in verità, assomiglia più a un dipinto su parete. Lo stesso Refn, che come tutti gli hipster è bravo a vendersi, ne ha parlato proprio in questi termini, come quando Lynch dice che dietro certi simbolismi non c’è un significato univoco e ognuno ci vede quello che vuole ma sanno tutti che non è vero. Non è proprio vero infatti che si può iniziare e finire dovunque si voglia, pur essendo Too old to die young un affresco immanente senza evoluzioni, inizia come finisce sempre uguale a se stesso.

Ma perché dev’essere un flusso ininterrotto di neon stroboscopici e sound elettronici della durata di tredici ore? Essenzialmente perché TOTDY non è un racconto o una storia, non ha un punto A e un punto B a cui si giunge con lo svolgimento XY, ma si configura come una lore, una mitologia di personaggi sovrannaturali che, incuranti del tempo che passa, fanno quello che hanno sempre fatto, e dalle cui gesta si possono pescare a quel punto racconti che ne isolano parti, contraddittorie fra loro e inevitabilmente parziali. Ecco che per la prima volta non si usa a caso il termine “epopea” per definire qualcosa di tali dimensioni filmiche. Quello di Refn è un epos in piena regola, ha i suoi eroi e i suoi protagonisti, le sue divinità e leggi esclusive. La seconda particolarità è che NWR guarda nell’epica e ci vede il noir più puro, più violento, più ineffabile: la violenza segue la violenza in una spirale discendente senza spiegazione.

Perché ci sono i fulmini? Perché li lancia Zeus? E perché c’è Zeus? Perché di sì. Fine.

Quanto mostrato in Too old to die young è piuttosto un mondo immaginifico precedente, sia dal punto di vista temporale che concettuale, a tutti i film di Refn, e non a caso abbonda di citazioni e collegamenti. Da questo oltre-mondo senza tempo il nostro trae i suoi film – nel tempo e dunque temporalizzati – che discendono genealogicamente da questa versione danese del caos primordiale. Il detective pro tempore Martin Jones funge da pivot inizialmente, ma già prima della sua morte avviene il passaggio alla mise corale, e tutto precipita in questo maelström di poliziotti corrotti che hanno perso ogni senso del concetto di norma e passano le giornate a inneggiare al fascismo con cori da cheerleader o a congegnare strane rielaborazione della Passione di Cristo, bande di giamaicani-americani con più divise che spacciatori al soldo, yakuza sovranisti, cartelli messicani che s’atteggiano a conquistadores pur con il nemico all’interno e piccole cellule di vigilanti new age senza rimorsi.

Le due figure più interessanti e misteriose sono le due predicatrici di morte: Diana e il suo misticismo puro da una parte, con due poliziotti al seguito in missione per l’innocenza (leggasi: addetti specializzati allo sterminio massivo di pedofili e pornografi e compagnia cantante), Yaritza, l’Alta Sacerdotessa della Morte che sfrutta il cartello per “l’olocausto della malvagità”, dall’altra. Il ruolo mistico, angelico (vendicatore) viene affidato alla figura femminile, più misteriosa, più dirompente nello status quo. Refn nell’attività di promozione ha più volte fatto menzione del fatto che la sua Los Angeles è l’America di Trump in nuceper la violenza normalizzata e spettacolarizzata, l’oppressione del più debole, lo stupro trattato come oggetto di bioetica, la sessualizzazione di qualunque corpo, l’incesto e l’abuso normalizzati, e via andare. L’America è il luogo dell’Apocalisse, è collassata e non si può più fare nulla per impedirlo, l’unica cosa e proteggere gli innocenti finché la terra non si spacca sotto i piedi.

Non a caso l’innocenza non esiste, Viggo e Martin vanno in giro ad ammazzare padri pedofili assieme ma hanno rispettivamente una relazione incestuosa alle spalle e una storia con una minorenne, pure Diana è animata da perversioni sessuali, pur fedele alla propria morale purificatrice, per non parlare poi di Yaritza e Jesus Rojas, del fetish per l’umiliazione di entrambi, del padre di Janey – la fidanzata di Martin – e della sua ossessione morbosa per la figlia: al punto da diventare eccessivamente grottesco, Refn ribadisce a qualunque costo la colpevolezza di ogni essere umano del cosmo losangelino.

Questo è un epos che non ha senso e mai ne avrà, le dieci puntate hanno tutto un titolo che ricorda una carta dei tarocchi, più volte i personaggi (il tenente soprattutto) parlano di “tirare un dado” perché, da buona mitologia, la dimensione di TOTDY è interamente sottomessa al fato, costituisce un caleidoscopio casuale di violenza dal quale possono essere tratti elementi tali da caratterizzare in autonomia una storia breve. E così abbiamo i progenitori degeneri dell’uomo senza nome di Valhalla rising (Viggo), del suo analogo di Drive (Martin), delle due facce di Chang in Solo Dio perdona (Diana e Yaritza) e delle modelle e dei pornografi di The neon demon.

E come lasciare poi da parte la chiave grafica, che è il fattore che più fa storcere il naso magari, con l’immobilismo protratto dei campi, le lunghe panoramiche, i piani-sequenza ipnotici, la fotografia che conosce solo le variazioni del blu elettrico e del vermiglio? Non si può, certamente bisogna entrare in questo mondo e nella sua estetica, e allo stesso tempo è necessario ammettere che un prodotto del genere non potrà mai e poi mai avere la brillantezza dei titoli di cui sopra, perché deve occupare non momenti ma l’intero flusso del tempo filmico. Si tratta di un contraccolpo necessario e messo in conto che però alla lunga perde di efficacia. E se a tutto ciò si aggiungono il lavoro sulla figura di alcuni personaggi di Ed Brubaker e le musiche mesmeriche di Cliff Martinez, il risultato è un incubo tossico a occhi aperti, a cavallo tra onirismo e fumettistico, pulp e fanta-epica. Too old to die young è un mondo in malora senza motivo, così è stato scelto, o forse no, sembra soltanto, un mondo che ciclicamente prova e eliminarsi da sé e fallisce (o no?) e ricomincia da capo. Perché è il caso che s’è espresso così. E solo per chi apprezza e sopporta uno sforzo del genere, da amante di quel tipo di cinema, ma ne vale la pena.

Astenersi perditempo insomma, ma in fondo non si può dire nulla a chi non apprezza questo genere, anche se è per pochi comunque non è certo elitario; è solo che, come si ripete spesso nelle puntate centrali, nei contesti di una seduta spiritica, un gioco erotico sadomaso e un massacro, ti deve piacere quello che vedi (“Do you like what you see?“). E a noi piace.