Venezia, Teatro La Fenice – Nona sinfonia di Beethoven

Credits Ufficio Stampa Teatro La Fenice

Pensare che, noi classe 1987, perdevamo le ore a suonare col flauto l’Inno alla Gioia durante l’ora di musica alla scuola media – solo uno dei brani che, assieme a “New York, New York”, “Hey Jude” e “Ciao, ciao, bambina”, avrebbe dovuto educare gli scolaretti al gusto per il ritmo e l’armonia. Non sapevamo invece che con quegli strumenti bavosi stavamo suonando le note di un monumento musicale aere perennius.
La Sinfonia n. 9, ultima tormentata composizione di Ludwig van Beethoven, è infatti un capolavoro immenso. La gestazione fu lunga. L’autore vi si dedicò completamente solo nel 1823, per dirigerla il 7 maggio 1824 al Theater am Kärntnertor di Vienna. Fu riferimento imprescindibile non solo per Schubert, Mendelssohn, ma anche per Brahms, Bruckner e Mahler.
Quel cammino dal buio alla luce che si compie nei quattro movimenti si avverò anche nella storia: suonata alle Olimpiadi del 1936, fu scelta come inno ufficiale della Comunità Europea nel 1972 e voluta da Bernstein nel 1989 , quasi un anno prima della morte, per la celebrazione della caduta del muro di Berlino, con il coro che cantò Freiheit (Libertà) al posto di Freude (Gioia). Ancora attuale con in atto ben due conflitti, An die Freude risuona come grido di speranza e libertà, se non di commosso desiderio di concordia tra le genti, sempre più difficile oggi che il destino del mondo è quotidianamente sull’orlo dell’abisso. «Abbracciatevi, siate avvinti, uniti» è il senso illuministico della Gioia che imprime quello slancio vitale a superarsi in una fratellanza universale.

Credits Ufficio Stampa Teatro La Fenice

 

 

 

 

Ne ricorre quindi il duecentesimo compleanno e il Teatro La Fenice di Venezia, che ce l’ha in repertorio da decenni, la ripropone doverosamente all’interno della stagione concertistica come altre istituzioni in tutto il mondo.

Daniele Rustioni conduce con piglio vigoroso, riuscendo, soprattutto nei primi due movimenti, a sottolineare la pregnanza dei molti temi della partitura, valorizzando tutte le sezioni. Riesce a far risaltare la complessa struttura musicale, rendendo palpabile la visione cosmica insita nella sinfonia.

Il basso Adolfo Corrado ha voce davvero calda e omogenea, precisa nell’emissione e nel fraseggio. Il tenore Francesco Demuro supera la prova dell’impervia tessitura in acuto. Ottimi il soprano Ana Maria Labin, dal piacevole timbro argentino, e il mezzosoprano Veronica Simeoni, voce di velluto, puntuale e assai corretta.

Il Coro, preparato da Alfonso Caiani, è artefice di una prova discreta, in termini di omogeneità, compattezza e precisione d’assieme.

Chi entra in una sala da concerto dovrebbe sapere che l’etichetta dell’applauso è molto rigida. All’inizio mi sono chiesto se i presenti si sarebbero lasciati al malcostume di applaudire a caso. Dopo il primo movimento tutto bene, ma alla fine del secondo sono caduti in fallo. Tra il terzo e il quarto non hanno potuto, vista la rapidità dell’attacco da parte del direttore. Segno dei tempi o ritorno agli antichi usi del teatro?

Successo per tutti alla replica del 1 giugno.

Luca Benvenuti