“Appuntamento a Belleville” di Sylvain Chomet
Quando si riesce a dire molto con poche parole.
Un film da ascoltare con il cuore.
Dopo essere stato accolto dall’entusiasmo di pubblico e critica al Festival di Cannes, dopo aver vinto il più importante festival del mondo per il cinema d’animazione, quello di Annecy, è finalmente sbarcato in Italia “Appuntamento a Belleville”, gioiello firmato dal regista francese Sylvain Chomet.
E’ la storia di una nonnetta zoppa ma piena di energia, Madame Souza, e del suo nipote – prima bambino poi giovane- Champion, amante della bicicletta fino a diventare un ciclista professionista che corre, seguendo i consigli della nonnina allenatrice, al Tour de France, durante il quale viene però rapito dalla mafia francese e portato in America. Ma la nonnina, insieme al suo cane, Bruno, e ad un trio di vecchie jazziste, Les Triplettes de Belleville, corre in suo aiuto in un inseguimento oltreoceano mozzafiato.
“Appuntamento a Belleville” è una storia che inizia con toni malinconici e romantici, per terminare con il ritmo tipico di un action movie (con tanto d’ inseguimento e sparatoria per le vie americane). E’ una storia senza tempo che, nell’estetica, richiama però gli anni 30 e procede con un plot all’insegna dell’andamento classico del romanzo d’avventura: si apre con una situazione di equilibrio, quindi l’eroe (la nonnina Souza) è costretta a partire, scatta a questo punto il meccanismo di ricerca che spinge a compiere un viaggio -di solito per mare (Souza attraversa l’oceano su un pedalò tra fulmini e tempeste), l’eroe quindi incappa in una serie di disavventure, supera prove, scampa pericoli e alla fine ritorna.
A fianco delle nonnina va sottolineata la splendida la figura del cane Bruno che, nelle espressioni e negli atteggiamenti, risulta essere il più umano dei personaggi, costantemente ossessionato dai treni di passaggio, desideroso di carezze e di un po’ di cibo, docile, sensibile e sempre disponibile a qualunque sacrificio pur di aiutare la sua padrona.
Ciò che cattura l’interesse dello spettatore, comunque, non è tanto la trama (come detto semplice e avvincente) ma lo stile con cui il cineasta francese, Sylvain Chomet, fa del suo lungometraggio una vera e propria opera d’arte con un andamento ai limiti dell’onirico e un geniale stile visivo.
Con Appuntamento a Belleville, infatti, ci troviamo di fronte ad un film d’animazione d’Autore, diretto con grande maestria, che stupisce, diverte ed emoziona. Raccontarlo e descriverlo è estremamente difficile visto che è quasi impossibile restituire quelle sensazioni e quelle emozioni che le continue trovate geniali del film suscitano nello spettatore. Gag e trovate brillanti si alternano con un senso dell’umorismo giocato sulle azioni invece che sulle battute. Questo perché ci troviamo a di fronte ad un’opera che segue in parte la trazione del muto (senza dialoghi ma con suoni e rumori), e che proprio facendo leva su questo aspetto fa sì che lo spettatore riesca ad immergersi nella storia solo trasportato dalla bellezza dei disegni e dalle musiche jazz entusiasmanti (su tutte la melodia delle Triplettes). Da citare la meravigliosa sequenza che ritrae Madome Souza e le Les Triplettes arrangiare un pezzo jazz sotto il ponte di Belleville (Brooklyn?) e quella della cena a base di rane nell’appartamento delle tre fantasmagoriche vecchiette che fanno musica nello stile irresistibile di Django Reinhard utilizzando aspiratori, frigoriferi e giornali
I disegni sono spigolosi, ai limiti della caricatura (ricordano quelli di Iacovitti), molto pittorici e fanno uso di elementi in stile retrò, come ad esempio la colorazione dalla tavolozza ricca di marrone, che ci riporta al gusto dei film in bianco e nero degli anni’50; i disegni degli ambienti e dei personaggi sono contornati da una linea non a tratto unico ma da un tratto che evidenzia il segno della matita degli animatori (tecnica usata negli anni ’70 dalla Disney per gli Aristogatti e la Carica dei 101). Il film per questo, essendo realizzato nella maniera più tradizionale possibile, ci ricorda -nell’era del digitale- che non è tanto lo strumento utilizzato (computer o matita) che fa la differenza del valore di un opera quanto l’ingegno e la creatività dell’artista. Ne deriva un film d’animazione che si tiene alla larga dallo stereotipo del disegno animato riservato ai bambini e che risulta essere forse più adatto ad un pubblico adulto, e possibilmente cinefilo.
Chomet, con quest’opera, crea un mondo surreale, onirico (genere Il favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet) e attraverso uno sguardo ironico, altera le proporzioni, deforma le fisionomie, gli ambienti e gli oggetti, (Champion, dal viso affilato come una lama, il corpo sottile come un fuscello e delle gambe muscolose come quelle di un culturista e dal naso aerodinamico –omaggio a Coppi(?)-; la signora Souza, folletto dagli occhiali spessi e la scarpa con la zeppa per compensare una gamba più corta dell’altra; gli scagnozzi – letteralmente – quadrati e simbiotici parodia degli agenti di Matrix(?); le salite impossibili delle città e dei colli; l’inquietante monumentalità della megalopoli Belleville – che altro non è che l’America – che si arrampica verso il cielo; le geniali e surreali navi che solcano gli oceani ).
E, nonostante questa prospettiva che distorce e questo anomalo punto di vista, Chomet ci fa capire, in fin dei conti, quanto quel mondo non sia così lontano dal mondo contemporaneo: si tratta di un mondo nella quale l’autore condensa, nella prima parte, uno spaccato della cultura d’oltralpe: dalla musica al cinema, dalla cucina allo sport, giocando con i sui stereotipi (il Tour, il vino, la criminalità organizzata etc..); mentre nella seconda, prende di mira l’America e gli americani (un carattere su tutti,accentuato e sottolineato, è quello dell’obesità delle donne, magnificamente simboleggiata da una statua della libertà dalle curve alla “Botero”).
Dentro questo mondo, da un lato, Chomet gioca e provoca, dall’altro, cita e rielabora.
Il suo lungometraggio, infatti, trasuda cultura cinematografica: Jacque Tati è continuamente citato nello stile e nel tono generale, ma tutto il cinema comico dell’epoca del muto – da Buster Keaton a Charlot- ha chiaramente influenzato l’autore.
Inoltre l’alto valore artistico dell’opera è dato dalla complessità di composizione di ogni singolo disegno creato e utilizzato per ogni scena: la composizione del quadro è minuziosamente equilibrata; magistrale è l’alternanza delle grandezze scalare; sono presenti angolazioni ad alto contenuto espressivo e connotativi; troviamo inquadrature funamboliche, soggettive geniali e movimenti di macchina strepitosi; il tutto legato in un montaggio ricco di trovate originali, a creare un prodotto complesso, di altissimo spessore artistico, di palese bellezza e mai banale e prevedibile.
Un film da non perdere, dove poesia e animazione creano un’opera d’arte di altissimo livello, capace di farti sorridere senza battute ed emozionare per l’innocenza e la semplicità dei sentimenti dei dolci personaggi.
Titolo originale Les Triplettes de Belleville
Regia Sylvain Chomet
Sceneggiatura Sylvain Chomet
Durata 80′
Montaggio Dominique Brune, Chantal Colibert Brunner, Dominique Lefever
Musiche Benoit Charest, Mathieu Chedid
Paese, Anno Francia/Belgio/Canada 2003
Produzione Les Armateurs, France 3 Cinema, Rgp France, Production Champion, Vivi Film, Canal+, Cofimage 12
Distribuzione Mikado