“Attila” al Teatro Comunale di Bologna

"Attila" è una delle opere giovanili di Verdi, andata in scena per la nuova stagione lirica del Teatro Comunale di Bologna.

Al centro, la discesa di Attila nella penisola: tratta con il generale romano Ezio, viene avversato da Foresto, profugo da Aquileia spazzata dall’orda barbarica, ma soprattutto è insidiato dalla sete di vendetta di Odabella a cui Attila ha distrutto l’intera famiglia.

L’opera dirige l’attenzione su tutto ciò che si muove nell’ombra, nascosto e silenzioso alle spalle di Attila che forte ma ingenuo ai limiti del ridicolo, si limita a passeggiare sulle macerie dell’Impero ormai al collasso graziando qua e là, con una magnanimità che di barbarico ha ben poco, i propri futuri carnefici – prima Odabella e poi il più innocuo Foresto.

In una trama in cui la volontà dei personaggi è intrappolata tra grossolanità, leggerezze e orditi troppo machiavellici, ha la meglio l’istintiva e primitiva forza di Odabella.

Verdi, così, inserisce il topos dell’implacabile vendetta femminile in atmosfere risorgimentali con arie che senza troppi giri di parole inneggiano all’orgoglio patrio e alla necessaria cacciata dello straniero. Il teatro di oggi, svuotato di ogni slancio patriottardo, si infiamma solo per il bel canto e applaude alle voci di Attila (Ildebrando D’Arcangelo), ma soprattutto di Odabella (Maria José Siri) ben spalleggiate da quelle di Ezio (Simone Piazzolla) e Foresto (Fabio Sartori).

Destano curiosità i costumi, prima ancora che la scenografia. Stracciata ogni corrispondenza con la fedele ricostruzione di vestimenti d’epoca, stupisce la fondina allacciata alla vita di Ezio e la divisa grigia che circonda, che fa lanciare un allarme alla pelliccia spruzzata con l’acqua di rose seduta al mio fianco: “Arrivano i fascisti!”. E se da una parte sono vestiti come i fascisti…dall’altra assomigliano a partigiani; Attila sembra esserne il fiero condottiero.

Si tratta di semplici allusioni o bisogna cercare di ricostruire un sistema di precise corrispondenze? Fuori dal teatro, insieme all’amico Giovanni tentiamo questo sentiero più impervio: l’omicidio commesso da Odabella diverrebbe allora un gesto a difesa di un sistema tradizionale, ma corrotto e ottusamente avverso alla ‘masnada’ innovativa ma irruenta che ha appena messo piede nel suolo patrio. Non più la fervente eroina risorgimentale, non più Giovanna d’Arco, ma Odabella si tramuta nella più vivace figlia della ‘folla’ manzoniana: quel popolo senza storia che, privo pure di coscienza, condiziona indelebilmente la Storia. Cerchiamo una zeppa per tenere in piedi la nostra ipotesi traballante e la troviamo in quelle statue classiche disseminate lungo il palco che, piegate su stesse e con le spalle al pubblico, sono la rappresentazione di quella cultura una volta nobile ma ormai svuotata di senso – o forse addirittura disapprovante? – cui Odabella s’è erta a fiera paladina. Terminato il giochino, rimaniamo perplessi: se ci sembra di aver unito per bene i puntini, uno in fila all’altro, rimaniamo però stupiti dal disegno finale che abbiamo ottenuto.
Io e Giovanni ci separiamo con le idee non troppo chiare, ma divertiti all’idea di pensare di aver mangiato un piatto tradizionale condito con una spezia orientale.