Ci sono cantanti passati alla storia per aver interpretato grandi brani di famosi autori, altri invece che scrivono e interpretano i propri brani: è la distinzione basilare tra interpreti e cantautori; e poi c’è chi, da autore puro, scrive e regala, tenendosi in disparte, rifuggendo la notorietà e raggiungendola per interposta persona. Uno di questi esempi è proprio Massimo Bubola.
Che non avrà raggiunto la notorietà propriamente detta, ma una sua nicchia ha saputo scavarsela, scrivendo canzoni divenute poi abbastanza famose per altri artisti (Fiorella Mannoia, Modena City Ramblers) e incidendo i propri dischi in una sorta d’intimità. Con questo suo nuovo disco, continua a percorrere le strade a lui congeniali del cantautorato rock, ma con meno grinta e più goffaggine del solito.
Perché le sonorità e le strutture che ne hanno permesso l’affermarsi, e che vagano tra De Andrè e Bob Dylan, tra il lato melodico e cantastorie del cantautore e quello più rockeggiante e americano, s’inceppano, sembrano rincorrere schemi altrui senza naturalezza e soprattutto si bloccano in scelte armonico-liriche spesso discutibili.
Se l’apertura con Sto solo sanguinando riprende l’andamento disilluso e beffardo di molta della sua produzione con intelligenza, già la successiva Una chitarra per due canzoni ripete lo schema iterativo di molta musica d’autore, ma senza troppa convinzione. Impostazione che fa da filo conduttore a tutto il disco, dandogli un impatto già di suo ripetitivo e che, al fianco di pezzi piacevoli o toccanti, come Cambiano, Uruguay o Uno, due, tre, allinea brani stanchi se non mediocri come Dolce Erica, Tutti quegli anni o persi nei cliché come Un angelo alla mia porta, riuscendo quasi a far dimenticare brani di punta come La canzone dell’assenza.
Di punta, anche perché la voce cavernosa di Bubola riesce a prendere sfumature intense e suggestive, scavando nei toni bassi senza sforzarsi in un’espressività vocale che, ci sia concesso, non è proprio il suo forte, come non paiono esserlo – almeno in quest’album – gli arrangiamenti di una band, relegata da spalle e senza gli interessanti guizzi strumentali che spesso facevano capolino dai brani dell’autore.
Un disco d’arresto, più che di passaggio, in cui è palese la mancanza di vera ispirazione, ma che comunque fa intravedere le capacità compositive e autoriale del cantautore, che sembra fare il contrario di ciò che di solito fanno gli autori migliori: dare agli altri i resti e tenersi i brani migliori.