Se ad un appassionato medio di cinema, con un generico interesse per la musica, chiedessimo all’improvviso di citare qualche opera di grandi nomi della composizione per il film, con ogni probabilità sentiremmo fischiettare senza esitazioni melodie di John Williams, o di Ennio Morricone, e forse anche di Henry Mancini o Max Steiner. Il nostro cinefilo potrebbe tuttavia trovarsi in imbarazzo se gli fosse fatta richiesta specifica di canticchiare qualcosa di Bernard Herrmann. Il nome, in realtà, non gli sarebbe ignoto: e saprebbe anche dire con buona precisione quali film hanno goduto di una colonna sonora dell’illustre compositore. Ma, con ogni probabilità, non riuscirebbe ad articolare nessuna melodia, nessun tema di spicco: e, perplesso, si domanderebbe come mai di quella musica che gli era parsa tanto eccellente non avesse conservato alcun ricordo preciso.
La soluzione dell’apparente mistero è semplice. Cupa e suggestiva miscela di tradizioni arcaiche e sperimentazioni d’avanguardia, l’arte di Herrmann non rivendica superiorità sull’immagine cinematografica: pur rimanendo a tutti gli effetti musica dal linguaggio magistralmente gestito, essa non si presta all’ascolto indipendente, ma si fonde profondamente con le necessità del film. Le note di Herrmann si abbarbicano a volti, colori, costruzioni del quadro e ritmi di montaggio: il senso dell’audiovisivo nasce come fondamentale valore aggiunto derivante da questa simbiosi, mentre la pellicola scorre. Ma, dopo i titoli di coda, lo schermo diventa nero e la musica di Herrmann svanisce: la memoria si rende allora conto di quanto sia difficile ricostruire ciò che si è udito, ora che non vi è più un sostegno visivo. Proprio in virtù di questa inesorabile e cosciente dipendenza dalle necessità di un’altra arte (quella cinematografica), di questa eteronomia, la produzione di Herrmann è forse nella storia la più compiuta realizzazione del concetto di “musica per film”.
È forse in tale concezione dell’eteronomia che risiede quello che si può definire lo “stile Herrmann”, più che nell’uso particolare delle sezioni degli archi, nell’audacia timbrica, nell’essenzialismo tematico. La dedizione alle logiche dell’immagine in movimento, in Herrmann, è totale: il risultato non è, tuttavia, un pedante commento onomatopeico a quanto accade sullo schermo, né una scontata ripetizione di “temi conduttori” di ascendenze wagneriane, associati in maniera fissa a situazioni o personaggi. Il discorso musicale appare invece nutrirsi di materiali più rari, che si annidano nelle profondità del film. Herrmann, in maniera impossibile a spiegarsi completamente in poche parole, traduce in musica ciò che è implicito nella narrazione, i moti dell’animo nascosti sotto il velo dell’inconscio, il segreto. I mezzi con cui consegue tali risultati sono temi ridotti in numero ed estensione, i quali vengono variati, trasmutati in maniera incessante, come pensieri ossessivi, lacerati per giunta dalla distribuzione tra i registri estremi dell’organico orchestrale, dall’estremamente acuto al grave più profondo.
Fu sicuramente per queste virtù di “psicanalisi sonora” che Herrmann arrivò a costruire uno dei più fruttuosi (e tormentati) sodalizi artistici della sua carriera con il regista Alfred Hitchcock, maestro nel narrare delle più affascinanti aberranze dell’agire umano. Sei film accomunarono i due artisti, da The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955) sino a Marnie (1964); il progetto che seguì quest’ultimo, Torn Curtain (Il sipario strappato, 1966) non fu affidato a Herrmann per via di crescenti conflitti tra il compositore ed il regista, il quale tendeva ad essere sempre più accondiscendente nei confronti di produttori e pubblicitari.
Molti sono i brani herrmanniani che potrebbero essere citati, nell’ambito della filmografia hitchcockiana, per scoprire gli espedienti sottili con cui il musicista traduceva le immagini in suoni: a cominciare dal caso esemplare di Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), in cui le quattro note del cosiddetto “Tema d’amore”, permutandosi e modificando il proprio ritmo, danno vita ad una seconda melodia, proprio come nel film una stessa donna genera due figure apparentemente distinte, Judy e Madeleine. Tuttavia, volendo invece trovare una traccia evidente di quella che è l’idea di Herrmann della musica come arte eteronoma, si dovrebbe prestare attenzione alla colonna sonora di The Trouble with Harry, nella quale ricorre una singolare citazione. Uno dei temi principali è infatti una parafrasi dell’incipit di Uranus, the Magician, ovvero uno dei movimenti di una Suite sinfonica tra le più famose del Novecento: The Planets, di Gustav Holst. Questo riferimento fa penetrare nella partitura un importante dettaglio della biografia di Herrmann. Il compositore, infatti, coltivò durante tutta la sua carriera l’arte della direzione d’orchestra, attività che in realtà lo attirò ben più della creazione di partiture proprie. Herrmann fu completamente, visceralmente incline ad essere un interprete, in ogni manifestazione della sua maestria: interprete di musica ed interprete di film, valorizzatore eccezionale ed invisibile di opere altrui. Ed ecco, allora, che il riferimento a The Planets nella colonna sonora di Harry diventa improvvisamente chiaro. Holst fu infatti uno degli autori prediletti dall’Herrmann direttore d’orchestra. Evocare tale musica all’inizio di un film significava dunque confermare l’implicita similitudine herrmanniana: “come un interprete legge Holst e lo comunica al pubblico attraverso la propria sensibilità, così un compositore traduce un film in sensazioni sonore e lo rende più completo e comprensibile”. In Harry le quattro note desunte da Holst sono allora in definitiva il simbolo dell’interpretazione, il vessillo dell’Arte cui Herrmann desiderò appartenere.
Canticchiare qualcosa di Herrmann, cioè separare la sua musica dal film cui è legata, oltre che difficile appare allora anche vagamente ingiusto nei confronti delle intenzioni dell’artista. E forse il meravigliato silenzio del cinefilo melomane, prova piccola ma non insignificante del grado di compenetrazione tra suono ed immagine ottenuta da Herrmann, avrebbe strappato al compositore un fugace sorriso di soddisfazione.