Capogrossi. Una retrospettiva

curata da Luca Massimo Barbero

La Collezione Guggenheim celebra Giuseppe Capogrossi facendo sbarcare in laguna da tutto il mondo tele sconosciute di uno dei maggiori artisti italiani del secondo dopoguerra.

Il curatore Barbero firma una grande retrospettiva sul celebre pittore romano, gettando luce sulla transizione dal figurativismo alla proliferazione totalizzante del segno-elemento.

Riscoprire il percorso di un’artista

La retrospettiva su Capogrossi inaugurata al Guggenheim di Venezia ha il pregio di essere una mostra ragionata, dietro alla quale risultano da subito evidenti i cinque anni di studio che l’hanno preceduta. La lungimiranza del Direttore Philipp Rylands, nonché la disponibilità della Fondazione Capogrossi, ha consentito a Luca Massimo Barbero d’intraprendere un’approfondita ricerca sulle origini del pittore romano e sulle notevoli trasformazioni lungo il suo percorso artistico. Capogrossi è universalmente celebre per il cosiddetto pettinino, quell’elemento nero a forma di E dentellata ripetuto e variato serialmente sulla tela. Agli esordi negli anni Trenta, tuttavia, il pittore romano si esprimeva con una figurazione a cavallo tra la Metafisica di Carrà e il Futurismo à la Prampolini. La mostra colma il buco fra le opposte tendenze in Capogrossi, ricostruendone la vicenda artistica come il risultato di un unico percorso di ricerca sullo spazio e la natura. Le sale al Guggenheim sono progettate come percorso documentato e suggestivo nella sua evoluzione stilistica. Immerse nel buio, le prime stanze mostrano la maniera iniziale del pittore, ritratti di bagnanti memori della lezione surrealista, ma è già presente un’attenzione alla pittura come disposizione delle superfici. Si fa strada la luce e lo spettatore messo davanti agli esperimenti condotti dal pittore negli Anni Quaranta, una fase di transizione giocata su tentativi in stile cubista (Le due chitarre) e un’ampia serie di Studi per finestre, affrontate come esercizi astrattisti concentrati sia sul segno sia sulla sintesi spaziale. Qui nascono le opere degli ultimi due decenni di vita del maestro, presentate nelle restanti sale, dove giunge a un segno primordiale capace di incarnare il frutto maturo della ricerca di una vita, quella sulla rappresentazione elementare dello spazio e della natura.

Un italiano sul tetto dell’arte negli anni Cinquanta

Assieme a Lucio Fontana e Alberto Burri, Capogrossi completa quella triade di artisti italiani che furono gli unici a godere di considerazione internazionale nel secondo dopoguerra. Dei tre Capogrossi fu però il solo a essere inserito direttamente nel circuito dell’informale europeo e poi americano. La svolta nella sua produzione è rappresentata dalla celebre mostra romana del 1950, poi ripresa a Milano e Venezia, nella quale comparirono le pitture bianche e nere delle sue falangi (come egli stesso amava definire i pettinini) che assediano lo spazio intermedio. La quarta sala espone diversi quadri rappresentativi del nuovo corso, intitolati già significativamente Superficie a indicare l’importanza dello spazio bidimensionale che viene configurato dai segni scuri sulla carta telata. Alla Biennale dello stesso anno queste tele attirarono l’attenzione del critico francese Michel Tapies, il quale le volle per la celeberrima esposizione “Véhémences Confrontée”. Capogrossi si trovò così catapultato già nel 1951 nel raggruppamento di artisti che avrebbe dominato il decennio appena iniziato, fra cui Pollock, Kline, Dubuffet e Hartung. Il segno-elemento aveva dunque colto appieno lo spirito delle trasformazioni introdotte dalla pittura informale. Seguì a stretto giro lo sbarco negli Stati Uniti con una mostra da Leo Castelli a New York propiziata dal gallerista veneziano Cardazzo. L’acquisizione di Superficie 210 da parte della Guggenheim Foundation nel 1958 segnò la sua definitiva consacrazione. Questa grande tela costituisce il prodromo all’ultimo decennio del pittore romano, quando i pettinini assumono dimensioni titaniche e si amalgamano con i colori elementari. Sono quadri che paiono in continuità con la ricerca di Piet Mondrian, ma la vera qualità del segno-elemento risiede nel suo grafismo, precursore delle invenzioni di Keith Haring.

Capogrossi. Una retrospettiva | curata da Luca Massimo Barbero
Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
28/09/2012 – 10/02/2013
Orario:
Apertura 10-18 tutti i giorni
Chiuso il martedì, il 9 gennaio, il 20 febbraio e il 25 dicembre
Aperto nelle altre festività, 1 maggio incluso.
Informazioni generali:
tel: 041.2405.411
fax: 041.520.6885
e-mail: info@guggenheim-venice.it