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D. Credete che ci sia una crisi del romanzo in quanto genere letterario, o piuttosto una crisi del romanzo in quanto il romanzo partecipa della crisi più generale di tutte le arti?
R. Non credo alla crisi del romanzo (italiano). Altrimenti, come potrei pensare di scriverne io stesso? Sto tentando di scriverne uno, infatti: forse non riuscirò a realizzarlo come vorrei, forse non riuscirò nemmeno a partarlo a termine. Eppure, quando mi sarò reso conto, ancora una volta, della mia impotenza, mi guarderò bene dal cadere nell’errore di molti, sempre pronti a imbastire, sulle proprie debolezze e deficienze, delle teorie generali. Penso a Pavese, alla sua insofferenza di dieci anni fa nel sentire queste stesse campane a morto. Penso anche all’esempio di Stevenson. Stevenson era Stevenson, d’accordo: ma bisognerà pure imitare la sua fede, ripartire ogni volta, come lui, gettando tutta la posta sul tavolo, avendo per meta il capolavoro! In caso contrario, che senso avrebbe tenere la penna in mano?
E non credo neppure alla crisi delle arti (sempre in Italia, si capisce: ma basta). A costo di apparire poco elegante, affermo anzi che ogni anno, nel nostro paese, viene prodotto un certo numero di poesie, quadri, sculture, romanzi ecc., non indegni del nostro passato.
D. Si parla molto del romanzo saggistico. Pensate che esso sia destinato a prendere il posto del romanzo di pura rappresentazione (behaviourista)? In altri termini, Musil sostituirà Hemingway?
R. Musil o Hemingway? Chissà. Chi può dirlo? In Italia, comunque, dubito che possa nascere nulla di veramente utile, oggi, nel campo della narrativa, al di fuori della letteratura. Alcuni miei amici, per altro finissimi letterati, sono di avviso contrario. Io, per me, persisto a non dar molto credito, qui da noi, agli ex camionisti, o ex sguatteri, o ex aviatori, ecc. ecc., audacemente indottisti (da soli, o istigati da terzi) a scrivere racconti e romanzi di vaga eco hemingwayana, come se Hemingway, dal canto suo, a parte le personali pose da protagonista della vita, da «duro» romantico-decadente, non fosse poi un letterato di prima forza, con tutte le sue brave carte in regola. Fra due o trecento anni, quando la lingua italiana sarà diventata veramente nazionale, e non sarà più indispensabile far studiare ai ragazzi delle scuole il latino, il quale resta l’unico connettivo, a tutt’oggi, del caos linguistico nazionale, allora anche in Italia, tutto sarà possibile. Nell’attesa, il romanzo saggistico, letterario (è stato evocato Musil, ma bastava Manzoni), ha tutta l’aria di essere quello che meglio fa al caso nostro.
D. La scuola narrativa francese di cui fanno parte Butor, Robbe-Grillet, Nathalie Serraute e altri, proclama che il romanzo volta definitivamente le spalle alla psicologia. Bisognerebbe far parlare gli oggetti, tenersi ad una realtà puramente visiva. Qual è il vostro parere?
R. Nell’immediato anteguerra, Carlo Cassola scrisse due piccoli libri di racconti (La visita, Alla periferia) che anticipano curiosamente la visività da obiettivo fotografico di Butor, Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute. Anche i racconti di Bilenchi, della stessa epoca, sono prevalentemente visivi. Ma a quel tempo, in Italia, c’era il fascismo, la dittatura. La retorica più smaccata, più indecorosa, impregnava ogni manifestazione pubblica e privata, pratica o intellettuale. In quelle circostanze, l’assenza dell’arte, la sua purezza, ebbero una precisa giustificazione, e rappresentarono effettivamente una protesta dell’intelligenza e del gusto contro la noiosa e offensiva volgarità delle sfere ufficiali. Ora, io sono lontanissimo dal proporre l’equazione fascismo-gollismo. Eppure…
Ad ogni modo, non mi pare azzardato prevedere che la fortuna, in Italia, di manierismi narrativi del genere di quelli di Butor, Robbe-Grillet, nathalie Sarraute, dipenderà in gran parte dalla sorte che sarà riservata alla nostra democrazia.
L’impassibilità mortuaria del Voyeur e della Jalousie evoca direttamente la dittatura del grande capitale industriale, il «moderno» qualunquismo neocapitalista e neopositivista (e la conseguente messa al bando dei comunisti).
D. Cosa pensate del realismo socialista nella narrativa?
R. E’una ipotesi, un sogno, una chimera. Ciò non toglie che molti nostri critici di sinistra ne parlino come di qualcosa di veramente esitente o realizzabile; e che continuino a confrontare ogni romanzo che viene fuori con questo ideale, platonico (anche se marxistico) nulla.
D. Il problema del linguaggio nel romanzo è prima di tutto il problema del rapporto dello scrittore con la realtà della sua narrativa. Credete che questo linguaggio debba essere trasparente come un’acqua limpida in fondo alla quale si distinguono tutti gli aggetti, in altri termini credete che il romanziere debba lasciar parlare le cose? Oppure credete che il romanziere debba prima di tutto essere scrittore ed anche persino vistosamente scrittore?
R. Non è simpatico polemizzare con le domande. Tuttavia, una volta tanto, mi sia concesso chiedere: «Perché questa domanda?» Siamo nel 1959, ben avanti nel secolo, abbastanza adulti, direi. E ancora a dover baloccarci con questi falsi problemi? Ancora a dover scegliere tra la via di Svevo e quella di Tomasi di Lampedusa, tra quella di Cassola e quella di Gadda o della Banti, tra quella di Moravia e quella di Soldati? Quando invece si sa che tutte le strade vanno bene, o male; e che l’unica cosa necessaria ad un romanzo perché funzioni – l’unica che l’acqua del suo linguaggio deve lasciar trasparire – è la ragione per la quale esso è stato scritto, la sua necessità?
D. Che cosa pensate dell’uso del dialetto nel romanzo? Credete che si possa dire tutto con il dialetto, sia pure in maniera dialettale? Oppure pensate che soltanto la lingua sia il linguaggio della cultura, e che il dialetto abbia dei limiti molto forti?
R. I romanzi e i racconti di Carlo Emilio Gadda, i due romanzi di Pier Paolo Pasolini, hanno dimostrato chiaramente, mi sembra, che l’uso del dialetto è più che legittimo. E perché non dovrebbe esserlo, del resto? Esistono vocaboli nobili o ignobili? Se avessimo da fare qualche riserva circa la dignità del dialetto, dovremmo poi farne anche a proposito degli stracci, dei legni bruciati, delle lamiere di Burri, e dire che i quadri di Burri non sono quadri, perché la pittura si fa solo coi colori, preferibilmente con quelli a olio. Certo, col solo dialetto non si può esprimere tutto, oggi. Goldoni e Porta (a Roma, e più tardi, il Belli già meno) erano ancora in grado, scrivendo in dialetto, di esprimere tutta la realtà veneta e lombarda dei tempi loro. Ma da quei grandi poeti ci dividono secoli, ormai. E i dialetti italiani, anche i maggiori, tendono sempre più a essere le voci della provincia, ghetti linguistici sempre più angusti e limitati.
D. Credete alla possibilità di un romanzo nazionale storico? Ossia nel quale in qualche modo siano rappresentati i fatti d’Italia, recenti o meno recenti. Credete sia possibile, in altri termini, ricostruire vicende e destini che non siano puramente individuali? E fuori dal tempo «storico»?
R. Anche questa domanda mi meraviglia un poco. Non è bastato il Gattopardo a dimostrare che un romanzo nazionale storico è pienamente possibile? So bene che la storia del Risorgimento italiano, è, in genere, ritenuta troppo poco «importante» da alcuni scrittori italiani smaniosi di apparire moderni, internazionali, e tradotti in inglese e in francese. So bene che perfino il ventennio fascista, che è storia di ieri, comincia, agli stessi, a puzzare di bega locale. Ma, d’altra parte, per poco che si creda alla lingua letteraria italiana come ad un organismo vivente, in faticoso processo di sviluppo, come prescindere dall’età del Risorgimento e da quella del ventennio fascista: dal terreno misto e contraddittorio, insomma, in cui affondano le nostre giovani radici? E poi: non sarà, magari, attraverso un ripensamento storico della nostra realtà nazionale, che sarà possibile uscire dalle secche crepuscolari e sentimentali del neorealismo postbellico?
D. Quali sono i romanzieri che preferisce e perché?
R. Sono tanti, tra morti e viventi, tra italiani e stranieri, che per rispondere adeguatamente a questa domanda dovrei fare un elenco troppo lungo, e quindi immodesto. Come scrittore, ho sempre guardato più all’Ottocento che al Novecento; e fra i grandi romanzieri di questo secolo, e quelli che, come Proust, James, Conrad, Svevo, Joyce (il Joyce di Dubliners) e Thomas Mann, derivano direttamente dal secolo scorso. Personalmente, non ho ambizioni letterarie di tipo balzachiano. Non mi importa nulla di dare un quadro generale della nostra società. Vorrei poter scrivere qualcosa che si avvicinasse al lirismo e alla tensione narrativa dei Malavoglia, di Senilità e, soprattutto, di The Scarlet Letter di Hawthorne: libro che non posso rileggere, ogni volta, senza provare la più violenta commozione.
(1959).
II.
D. Non vorremmo che già la prima domanda Le sembrasse troppo indiscreta, ma essendo Lei, da una parte, lo scopritore del Gattopardo del principe di Lampedusa, e dall’altra il felice fortunato autore del Giardino dei Finzi-Contini, non ha talvolta l’impressione di essere un po’ sovrastato, se non impedito, da due così clamorosi successi?
R. Non la trovo affatto indiscreta, questa prima domanda, e anche se lo fosse, le farei lo stesso buonissimo viso. No, il successo che piano piano è venuto crescendo attorno al mio lavoro, mi ha forse sorpreso, ma non spaventato. Non me ne sento né impedito né sovrastao. So di dove viene, e perché. E allo stesso modo che il silenzio e il disinteresse del pubblico non mi avrebbe mai indotto –come non m’indussero-, nei lontani anni della prima gioventù, a distogliermi dalla contemplazione della mia verità, così ritengo che nessun clamore potrà mai distrarmi, in futuro, dal testimoniare quel che avrò da testimoniare. L’importante è di continuare ad aver da dire qualche cosa. Sono stati sempre loro, i temi dei miei libri, a venirmi incontro, a chiedermi insistentemente di prender forma. E vorrei, visto che mi è stata rivolta una domanda, che si tenesse sempre presente questo: chi corre dietro al pubblico, vuol dire che non ha niente, dentro di sé.
D. Di tutto quel che ha detto e scritto, in varie occasioni, del Lampedusa, avrebbe ancora qualcosa da rivelare sull’uomo e sullo scrittore?
R. Ho troppe cose da dire, su Lampedusa, perché mi sia possibile esaurirle qui, in una rapida sintesi. Mi limito perciò a segnalare due punti per me sostanziali. Primo: non è stata sufficientemente calcolata, secondo me, o per lo meno non è stata messa abbastanza a fuoco, l’importanza dell’operazione letteraria compiuta da Lampedusa. In sostanza, che cosa ha fatto Lampedusa? E’ impossibile, a mio parere, scindere il Gattopardo, come fenomeno spirituale e letterario, dal suo grande precedente isolano: Verga. Mi spiego meglio: il rapporto che lega Lampedusa a Venezia è di natura vivamente storica, e, per me, di immenso interesse. Con il Gattopardo (e coi Racconti), Lampedusa ha riportato, rilegato vorrei dire, il separatismo siciliano protestato dai grandi romanzi verghiani, al tronco della cultura nazionale. In questo senso Lampedusa sviluppa Verga, non gli si oppone, come generalmente si crede. Ma sviluppa Verga portando alle estreme conseguenze le promesse verghiane, andando oltre la stessa protesta verghiana. Con i suoi romanzi, Verga disse di no alla cultura nazionale, e disse di no all’intera penisola: un no che investiva tutti i valori, politici, storici, economici, linguistici, della Nazione. I problemi della Sicilia erano altrove, separati dall’Italia; problemi tragici ed elementari, che niente avevano da spartire con la nascente borghesia italiana. Si tenga presente che Verga, scrittore, nasce nel momento di crisi dell’Italia risorgimentale. Verga provocò dunque una frattura, si oppose; e di questa frattura, e di questa opposizione, egli è stato il tragico e alto poeta che è. Nel momento di crisi del secondo Risorgimento italiano, in piena crisi dei valori della Resistenza, Lampedusa riprende i motivi verghiani, e ripete il no di Verga, includendo in quel no l’intera vita nazionale. Siamo tutti siciliani, ormai: ecco cosa dice Lampedusa. Mentre Verga parla al suo popolo, Lampedusa si rivolge alla nazione, nella lingua della nazione. Il no di Lampedusa si estende perciò al di là delle frontiere verghiane. Egli è riuscito in un’impresa che poteva sembrare addirittura impensabile: quella di innestare il problema della solitudine, del nulla siciliano, nel più vasto ambito di tutta la cultura nazionale.
Secondo punto: da quanto ho detto fin qui, risulta già abbastanza chiaro quale valutazione diversa, da quella consueta, io sia portato a fare del Gattopardo sul piano tecnico. Non è un romanzo storico, come per esempio è apparso a Vittorini e ad altri; e nemmeno nella costruzione, dopo tutto. A mio parere, il Gattopardo va visto piuttosto sotto l’aspetto di un felicissimo caso di poema nazionale. Un romanzo che sarebbe piaciuto ad Antonio Gramsci, io credo; un esempio, direi indiscutibile, di letteratura nazional-popolare.
D. Possiamo chiederLe, sul filo dei ricordi, di voler rievocare per i lettori dell’«Europa letteraria» un’altra figura che è così legata alla sua formazione letteraria, Marguerite Caetani?
R. Rispondo con molto piacere; per quanto non si possa propriamente dire che Margherite Caetani sia legata alla mia formazione letteraria. Obbiettivamente, Marguerite Caetani era quel che si dice un mecenate: disponendo di larghi mezzi, si era prefissata di continuare in Italia l’opera da lei iniziata in Francia con «Commerce», e si era rivolta a me perché l’aiutassi a realizzare il suo progetto. Ma, da un punto di vista mio personale, non c’è dubbio, e mi piace ricordarlo a distanza di poche settimane dalla sua scomparsa, che io ho imparato molto, da lei. Ho avuto occasione di conoscerla in anni difficili per tutti, e anche per me. Ero, a quel tempo, nel 1947, ancora in gran parte immerso in problemi miei, esclusivamente miei, come accade a qualsiasi giovane, portato a vivere di una realtà prevalentemente interiore e in certo modo ossessiva. Ciò avveniva per me, anche sul piano letterario.
Nonostante gli sforzi che ho fatto per liberarmi, sono cresciuto anch’io fra coetanei per i quali la letteratura era un’ossessione.
Marguerite Caetani mi insegnò, non già a prendermi meno sul serio, ma a vedere le cose della mia vita in una prospettiva più reale. Era una donna di grande e severa generosità, e di grande carattere, ma possedeva anche il dono della distrazione interiore.
Aveva innato il senso delle proporzioni e, come le persone che per istinto o per usodi mondo sono abituate a guardare da punti di vista superiori, quello della relatività. Innamoratissima della letteratura, molto sensibile ai valori dell’arte, Marguerite Caetani ignorava il fanatismo. La sua impetuosa natura americana si era sposata in modo incantevole con quanto di più raffinato e gentile appartiene all’Europa dei primi decenni del secolo.
D. Ora veniamo, direttamente, al Suo lavoro. Ha da poche settimane licenziato il volume che raccoglie tutte le Sue poesie, L’alba ai vetri, e vorremmo spingerLa, vincendo la Sua ritrosia, a dire se quel Suo libro di versi, per Lei e per noi, sta alla Sua opera narrativa come i versi di Pavese, Lavorare stanca, stanno alla sua opera narrativa.
R. Non saprei. E’ chiaro che i miei versi, riuniti nel volume L’alba ai vetri, si associano strettamente alla mia produzione narrativa. E a questo proposito vorrei aggiungere che, personalmente, non posso soffrire le distinzioni tecnicistiche, starei per dire sindacali, tra poeti, narratori, saggisti, eccetera. L’attività creativa mal sopporta questo tipo di etichette e di distinzioni, che riflettono concezioni critiche accademiche e invecchiate. Che cos’è la Recherche? E Ulysses, che cos’è? E Das Schloss? E Der Zauberberg? Non sono, forse, insieme, romanzi e poemi, opera lirica e narrativa? Giorgio Zampa, recentemente, ebbe a sollevare dei dubbi circa la legittimità, da parte di Thomas Mann, di ritenersi Dichter, poeta. Io me ne guardo bene. Quanto, poi, al particolare parallelismo critico che la domanda mi propone, riguardo alla proporzionalità del rapporto fra l’opera narrativa e in versi di Pavese e la mia, sinceramente non ci ho pensato. Ma è un problema questo? Si parva licet, sarebbe lo stesso che chiedersi se gli Inni sacri stiano ai Promessi sposi o alla Colonna infame come Chamber Music a Dedalus o a Ulysses. Ma, a parte l’assurdità dei letti separati, poeti e narratori, e a a parte il parallelismo con Pavese, mi permetto di offrire una piccola indicazione critica su me stesso: non avrei mai potuto scrivere niente se non avessi, prima, scritto Te lucis ante. In un certo senso, è dunque questo il mio libro più importante.
D. Venendo, appunto, alla Sua opera narrativa, permetta questa domanda a bruciapelo: si aspettava, in tutta la sua risonanza, e nella conseguente responsabilità, il successo davvero popolare del Giardino dei Finzi-Contini? Tanto il successo italiano, quanto europeo e internazionale? E al di fuori del Suo merito personale, crede che quel successo abbia ragioni – cause ed effetti – che vanno al di là, non diremo del «caso», ma piuttosto dell’esempio del Suo libro?
R. Prima di rispondere, mi chiedo io: ma è stato poi un così grande successo, Il giardino dei Finzi-Contini? O più precisamente: così sproporzionato? Che un libro abbia successo, anche popolare, anche al di fuori dei confini della tribù, Dio mio, sono cose che capitano a chi scrive! Me lo aspettavo, il successo del Giardino dei Finzi-Contini? Mi aspettavo sempre il successo dei miei libri, quando scrivo, e non ci penso mai.
Circa la seconda parte della domanda, confesso che non capisco bene: intendo dire la faccenda del «caso» e dell’«esempio». Ma così, a occhio e croce, è fuori di dubbio, certissimo, che il successo del Giardino dei Finzi-Contini ha dietro ragioni che vanno oltre il mio «merito personale». Io valgo molto di meno del Giardino dei Finzi-Contini.
D. Pur nella riconosciuta modernità dei temi e dei problemi, qualche critico italiano o straniero ha classificato il Giardino tra i romanzi «tradizionali» e «classici». In che senso, e con quali ragioni, Lei respinge le tendenze «antinarrative» di certa odierna narrativa?
R. Veramente, io non respingo affatto le tendenze antinarrative di certa odierna narrativa. Ma mi accorgo che la domanda mi inoltra in un corso di pensieri di una certa complessità. Effettivamente, credo che esistano, all’interno del «narrare», diciamo così, narratori-narratori, e narratori-antinarratori; romanzieri-romanzieri, e romanzieri-antiromanzieri. In linea generale, ho l’impressione che i narratori-antinarratori riflettano una sostanziale opposizione di se stessi al mondo. Opposizione che si duplica anche nel senso di un’opposizione di se stessi come poeti, di se stessi in quanto artisti, al mondo. Picasso, per esempio, mi viene in mente. Questa specie di artisti completamente artisti, di monadi eroiche, isolate in mezzo al caos insensato del mondo, è sempre esistita, esisterà sempre. Io sono d’un’altra specie.
D. Il Suo nuovo romanzo, Dietro la porta, che tra qualche ora andrà in mezzo al pubblico, quale risposta intende dare e dà all’attuale stato di crisi del romanzo italiano ed europeo?
R. Nessuna.
(1964).
Testo tratto da: “Le parole preparate”, raccolta di saggi critici di Giorgio Bassani. Torino, 1966.
Il sito ufficiale della Fondazione Giorgio Bassani: http://fondazionegiorgiobassani.it