È un Moni Ovadia stanco quello che apre lo spettacolo “Es iz Amerike!” al Teatro Brancaccio di Roma. Un Moni Ovadia infiacchito, ripetitivo, poco brillante, disattento, quello che lo conduce fino quasi alla fine.
La linea drammatica è semplice: Moni è un imbonitore da fiera, un saltimbanco, un venditore, una figura da avanspettacolo. In questi panni multiformi racconta le gesta travagliate degli Ebrei dell’Est europeo. Quel grande Est che va dalla Polonia alle repubbliche baltiche, dalla Bulgaria alla Bielorussia all’Ucraina, tutte zone d’influenza dell’Impero Zarista prima e dell’Unione Sovietica poi.
Come in tante altre aree del mondo, ma là con particolare frequenza e ferocia, gli Ebrei sono stati da sempre il capro espiatorio e la scusa e lo sfogo del potere centrare. Una storia millenaria che può essere riassunta in due parole: stetl, i villaggi ebraici grandi quanto un quartiere in cui si sono raccolte centinaia di leggende e dissertazioni teologiche della memoria degli Ebrei della diaspora; e pogrom, i periodici massacri che ben prima di Auschwitz hanno incarnato il senso di quella parola “olocausto” che altro non vuol dire se non sacrificio.
Tra lo schiacciante impero russo nei suoi due avatar da una parte, e il nascente programma di ripudio e sterminio nazista dall’altra, una sola alternativa si parava davanti a questa serie di villaggi che solo all’ennesima diaspora si ritrovano popolo: la migrazione. Tutto lo spettacolo di Ovadia è il grande racconto di questa migrazione. Nella sua tappa ultima: l’America.
Si parla di grandi e piccoli ebrei, intervallando – con una formula collaudata – barzellette e storielle con racconti di vita vissuta dai piccoli reietti fino alla grande epopea di Hollywood, mito dall’american way of life per eccellenza, in gran parte, singolarmente, dovuto alla mano di ebrei. I grandi comici, alla cui schiera anche Ovadia idealmente si collega, che vanno da Groucho coi Marx Brothers fino a Woody Allen e Mel Brooks, con un dubbio e una rivelazione (che anche Ovadia confessa aver scoperto da poco): forse Charlie Chaplin, il più famoso ebreo del cinema, non era ebreo; e invece certamente, e inaspettatamente, lo era l’autore della ipercelebrata White Christmas, canzone della festa cristiana del Natale.
La Stage Orchestra suona dai pezzi tradizionali a riarrangiamenti di speciali canzoni entrate nel mito, come la Summertime dell’ebreo George Gershwin in una vecchia versione yiddish affidata alla calda voce di Lee Colbert, fino alla versione altrettanto ossimoricamente yiddish di White Christmas. Il sogno della nuova Gerusalemme, insito in ogni migrazione, è scandito dai canti di nostalgia per la madre lasciata a casa o dai canti di viaggio, con reminiscenze (dolorose) molto più antiche. La ricerca di quell’altro grande sogno, quello americano, si trova in altri canti più o meno frivoli, più o meno destinati a restare. L’ultimo canto vede (e sente) un Moni Ovadia finalmente riscattato, con un grande cappello a stelle e strisce e una larga finanziera da Uncle Sam, ed è in inglese, con la traduzione portata davanti al pubblico dai musicisti-valletti: il poema di un altro grande ebreo. Omosessuale. Pacifista. Beat. Genuinamente poeta e genuinamente americano: Allen Ginsberg. Che, nel 1966 scrisse un atto d’accusa profetico contro la guerra nel Vietnam, declamato da Moni anche nella sua implicazione più profonda: partiti dalla migrazione di alcuni ebrei ghettizzati con una tradizione autoreferenziale, ora un ebreo scrive un poema in cui si possono specchiare tutti gli uomini: il Wichita Vortex Sutra.
Infine, a commiato e suggello di uno spettacolo – zoppicante, spesso noioso, ma come sempre sottilmente formativo – durato quasi tre ore, Moni ricorda ciò che non ha mai mancato di ricordare: gli Ebrei non sono più intelligenti, più furbi, più scaltri, più colti, più simpatici o antipatici, stupidi, sprovveduti o creduloni di chiunque altro. Il loro successo e la loro influenza nella Storia del Novecento, così come le loro vittime, dai sei milioni morti nei lager a Ariel Sharon, da Steven Spielberg e Stanley Kubrick a Rockfeller, dai Rotschield a Solomon R. Guggenheim a Henry Kissinger, non sono casuali ma dovute a cause precise, che si ritrovano, semplificando, nella storia di un popolo senza patria in cerca di riscatto. Oggi c’è Israele con tutti i suoi problemi e le sue implicazioni; oggi, gli “ebrei”, sono altri, dagli Indiani agli Armeni, dai Curdi ai Cinesi. La Storia trova sempre attori diversi per occupare le medesime nicchie.
ES IZ AMERIKE!
Di Moni Ovadia
Con Moni Ovadia, Lee Colbert, e la Stage Orchestra
Andato in scena dall’8 al 27 novembre al Teatro Politeama Brancaccio di Roma
www.politeamabrancaccio.it
Una coproduzione Promo Music, Teatro Stabile del Friuli-Venezia-Giulia e Mittelfest 2005