L’israeliana Hanna deve recuperare un credito per conto del marito. La palestinese Leila sa dove si trovano i soldi mentre l’americana Rebecca, alla ricerca della propria identità, le segue in un viaggio ricco di emozioni.
Un non-luogo sembra essere il protagonista principale di Free Zone. Al centro della storia ci sono si tre donne ma tutto quello che fanno e che dicono rimanda alla zona franca, come se fossero cadute all’interno di un imbuto che conduce, inesorabilmente, verso un’unica direzione. La zona franca è un luogo realmente esistente, ad est della Giordania, senza tasse e dogane, dove si recano le persone dei popoli limitrofi per vendere o acquistare automobili. In questo contesto si ha come la sensazione che qualsiasi difesa o resistenza si annulli e regni, in tutti, un profondo pragmatismo che permette la nascita di un dialogo e un soffio di tolleranza. Il film nasce dal tentativo di offrire un percorso diverso. Ignorare una realtà ostile per creare un gesto, un legame.
“Quello che volevo fare – dice Gitai – era uscire dalla spettacolarizzazione politica per andare verso la sostanza. Mostrare come in questa zona libera si possa, realmente, convivere”.
La sceneggiatura ha subito diverse trasformazioni. Nella prima versione c’erano due uomini e una donna. Successivamente, Gitai ha deciso per tre donne. Fin dall’inizio non sappiamo chi siano e dove vadano ma il loro viaggio inizia dallo stesso punto. Estremamente riuscito il momento in cui diversi strati di immagini si sovrappongono per evidenziare i loro ricordi e i motivi che le hanno fatte ritrovare insieme. A volte ce ne sono otto simultaneamente.
Gitai rifugge qualsiasi caduta “esotica”. In un film del genere sarebbe stato molto semplice e prevedibile scattare “cartoline” paesaggistiche. Lui non lo fa. Coglie, anzi, sia gli israeliani che i palestinesi nella loro pura modernità. Esattamente come sono oggi. Della Giordania ci mostra la vitalità e l’impulso vitale attraverso il traffico delle autostrade e la vita nelle strade di Amman.
Se nel road-movie classico la partenza rappresenta la nascita, il viaggio l’esistenza e l’arrivo la maturità, in questo caso rimane la componente metaforica (viaggio=vita) ma l’inizio sembra combaciare con la fine creando una spirale che rischia di soffocare lo spettatore. L’automobile sembra ricoprire un ruolo importante al punto da considerarla un personaggio stesso. Il suo spazio limitato definisce un luogo nel luogo. Quando le tre donne sono all’interno della vettura non possono rimanere distanti perché questa impone una vicinanza a cui non si sottraggono. I dialoghi e i silenzi quasi sono stabiliti dalla scatoletta metallica.
Sul fronte del linguaggio utilizzato, è estremamente riuscito il mescolamento tra tradizione e modernità, classicità e sperimentazione. Linguaggi filmici e lingue parlate si con-fondono dando vita ad una entità organica e compatta. Stilisticamente, il girato in pellicola si adatta, molto bene, all’estetica digitale (personaggi che si sovrappongono in dissolvenze incrociate) mentre il continuo passaggio dall’inglese all’israeliano, all’arabo e, perfino, allo spagnolo aumenta il livello di verosimiglianza della storia e dei personaggi raffigurati. Non solo. La complessità del reale viene resa manifesta attraverso un continuo senso di incertezza e ambiguità che sfocia, integramente, nell’ambito di una zona libera che esprime il reale desiderio del regista. Tutti vorremmo che esistesse. Almeno per un attimo lo spirito della guerra sembra cancellato.
Curiosità: è la prima volta che un film israeliano viene girato in Giordania. Hanna Laszlo ha vinto il premio come miglior attrice al Festival di Cannes 2005.
Titolo originale: Free Zone
Nazione: Israele, Francia, Spagna, Belgio
Anno: 2005
Genere: Drammatico
Durata: 94′
Regia: Amos Gitai
Cast: Natalie Portman, Hanna Laslo, Hiam Abbass, Aki Avni, Carmen Maura
Produzione: Agat Films
Distribuzione: Istituto Luce
Data di uscita: Cannes 2005
12 Maggio 2006 (cinema)