Venezia 67
Dai ménage à trois di Douches froides (presentato a Cannes nel 2005 e vincitore del premio Louis Delluc come miglior esordio) agli scambi di coppia rilassati. Anatomia di come si trasgredisce. A cuor leggero, senza sovrastrutture complicate.
C’è una cosa che non si deve fare quando si vedono i film che parlano di tradimento, scambio di marito e moglie, adulterio alla luce del sole e promiscuità di velluto. Parlare di noia, borghesia, rottura del codice morale e rottura del codice etico di una famiglia che non esiste più. Possiamo dirlo? Bla Bla Bla. Penso che i nostri bellissimi e torridi quattro protagonisti abbiano le idee chiarissime su cosa fare e cosa non fare.
Cosa fare della coppia e cosa fare della famiglia (i bei bimbi che spuntano qua e là, ignari più o meno della situazione) quando i modelli di riferimento sono tanti? Di solito peschi nel retaggio. Ti svegli con addosso già un default. Ti strozzi con la corda corta del clichè. E invece. Loro si inventano una morale (anzi, una regola del gioco) sgangherata ma funzionante e non imposta dall’alto. Cronistoria. La bella bionda in jeans e unghie laccate rosse (Marina Fois) fa e ripara gioielli, il biondo scompaginami-massì-la-vita tatuato e schivo (Nicolas DuvauchelleIl piccolo ladro, Corpi impazienti) le piomba nel negozio.
Dopo due (due) sequenze la moglie di lui (Elodie Bouchez, La vita sognata degli angeli), mora, magra come solo le francesi sanno essere (anche se fa l’americana), è avvinghiata al marito di lei (massaggiatore shiatsu, Roschdy Zem), sbottonato come solo i francesi sanno essere.
È ben complicato spiegare al resto del mondo che quando nasci con alle spalle i ’60 e poi i ’70 e poi gli ’80 e ancora i ’90 hai voglia di capire la tua direzione in fatto di relazioni sessuali e amorose con in testa una programmatica confusione. Si opta per la banale utopia. Sacchi di farina degni di una canzone pop, partite di squash come nei film dei broker, feng shui del sesso, shiaffi come nei porno-soft. Un’atmosfera naturale e fluida. Senza premeditazioni. Una fantastica nuova dimensione della normalità in cui la moglie dell’uno scrive alla moglie dell’altro “Non è che ti serve Franck?”…
Girato macchina a spalla poi in fase di montaggio spezzettato, questo piccolo compendio su cosa fare in caso di scappatella, ha una atmosfera fatta di scene torride e magliette a righe, di bicchieri di vino e case in campagna. Uomini che si occupano dell’aspetto logistico, donne che si corteggiano per immedesimarsi nei vari compagni. La luce delle belle giornate estive francesi inonda le loro belle vite di cenette all’aperto e nuotate adamitiche. Il respiro è morbido, il tocco elegante.
Antony Cordier diventa così il maestro della levità (anche quando indugia nelle scene carnali). Bastava una parola in più per far diventare questa piccola opera dissacrante perchè non vuole dissacrare l’ennesimo mattone in salsa neo-passatista, finto baluardo di una ideologia che non esiste. E che non deve esistere. Cosa si combatte?
Cosa si dissacra? Loro si amano. E se ne fregano. Continuano a coltivare l’amore coniugale, si fanno domande su possibili sliding doors sinceramente innocui. Normalizzano l’adulterio. Normalizzano lo scambio, rendendolo un passatempo per giovani bellissimi e contemporanemente imperfetti. Normalizzano la mitica entrata in scena “Cielo mio marito” con un “Adesso ognuno dorme a casa propria”. Si incontrano incendiati di passione, smettono, forse qui, per noia. No, smettono perchè scoprono che sono gelosi e che due di loro (categioria biondini/donne unghie laccate) si erano visti prima insieme da soli in quello squallido buco che è il clichè. Ecco, non trasciniamoli lì. Sono semmai l’anticlichè che vive e si nutre e rovescia la mitologia del “non è possibile amare due persone contemporaneamente”. Se vivi una vita sola, forse…
Happy Few di Antony Cordier – Francia, 103’v.o. francese – s/t italiano/inglese
Marina Fois, Elodie Bouchez, Roschdy Zem, Nicolas Duvauchelle