20 secondi di buio, lunghi, lenti, muti. E poi i titoli di coda. Nel bel mezzo di un momento di tensione, dell’attesa della fine, con le possenti note dei Journey (Don’t stop believing) a far da accompagnamento emotivo.
Così David Chase, autore e regista della serie HBO, con il series finale Made in America, mette fine alla più profonda e complessa opera sulla mafia dai tempi de Il padrino, che nella sua ultima stagione racconta in diretta e senza fronzoli l’orrore e l’imprevedibilità della morte.
La famiglia mafiosa de I Soprano, di cui la serie ha raccontato non solo le vicissitudini criminali, ma soprattutto i percorsi umani esistenziali e psicologici, è ad un punto di svolta della propria carriera malavitosa. Subito dopo la terribile morte di Adriana, cognata del boss Tony (James Gandolfini) e informatrice dell’FBI, (in quello che un recente sondaggio della rivista Empire ha giudicato come l’episodio migliore della serie, il 5×13), il clan deve cercare di rimettersi in sesto, perché l’FBI è vicina e il nervosismo familiare tra vecchia e nuova guardia sta creando insopportabili tensioni, che porteranno allo scisma e ad una sanguinosa scia di cadaveri.
Dopo due stagioni segnate da numerose vicissitudini produttive, che hanno portato realizzazione e programmazione a scombinare il ritmo annuale, la sesta è stata divisa in due tronchi, uno di dodici e uno di nove puntate. Il primo si incentra sul rapporto di Tony con se stesso e con le sue “famiglie” dopo il risveglio dal coma, mentre nel secondo si dipana lo scontro tra fazioni innescatosi a causa del vuoto di potere e la conseguente guerra, silente e atroce, che condurrà al finale.
In questi ventuno episodi, Chase e soci raccontano l’inferno fisico e morale in cui il boss scende mano a mano, mettendo da parte la psicoanalisi e gli incontri con la dottoressa Melfi (ma come in un passaggio di consegne, sarà il figlio ad averne bisogno) e rappresentando in modo estremamente diretto e duro le atrocità che scavano sotto il mondo Soprano.
Se la morte, come strumento di lavoro e casualità prevista, è stata da sempre fedele compagna dei personaggi della serie, stavolta diventa addirittura il collante narrativo e la radice ontologica su cui si fonda il racconto: non solo la morte come conseguenza di azioni delittuose, vendette, piani strategici di dominio criminale, ma come modo di vita, filosofia, scelta esistenziale.
O semplicemente accidente fisiologico. Tutta la stagione è il racconto cupo e disilluso del declino fisico e morale di un impero, ad iniziare da chi è più vicino al boss Tony: dall’amato-odiato zio Domenico, vittima della senilità (la vecchiaia da sogno impossibile di un gangster a prigione indesiderata), a Christopher, il figlio non avuto morto di cocaina e incidente stradale, da Paulie e il suo cancro alla prostata fino a Anthony jr., il figlio avuto e quasi perso per colpa dello stesso male del padre, la depressione.
Così la sottotraccia drammatica trova sfogo compiuto in quella più direttamente narrativa, nella linea orizzontale del racconto, con la guerra subdola e terribile, intrisa di sorrisi e finte cortesie, con lo scissionista Phil Leotardo. Una lotta fatta di morti improvvise e non troppo rimpiante, tessere di un puzzle impazzito, come Bobby, il gravissimo ferimento di Silvio, o la messe di agguati e piccoli manovali del crimine che, come in una rissa tra “poveri” lasciano per strada le loro speranze.
Come accade per il clan di Leotardo, la sceneggiatura di Chase fa terra bruciata attorno a Tony, conducendolo verso un rapido ed inesorabile declino fatto di solitudine, paure e responsabilità nei confronti del prossimo.
Il boss – ormai interessato alla propria famiglia meno di quanto non lo sia al “salvarsi la pelle” – si macchia, materialmente e moralmente, della fine di tutti coloro le cui vite gravitano intorno a lui. Non solo, dunque, decretandone la morte nel corso di azioni criminali, ma anche arrogandosi il diritto di modificare per sempre il corso delle esistenze di chi più gli è vicino: i suoi stessi eredi. Al figlio legittimo, che quasi non sente più “suo”, fornisce un insopportabile retaggio culturale di cui non potrà mai liberarsi, mentre al figlio “acquisito”, che lo ha tradito e sbeffeggiato, accelera la morte dopo un incidente, per cancellare idealmente il proprio senso di colpa.
E così, la saga di una famiglia mafiosa diventa la pietra tombale di ogni famiglia, la distruzione sistematica, ironica e tragicamente complessa del legame, dell’onore, del romanticismo che anni di cinema gangster hanno raccontato: la normalità e la quotidianità, la banalità di personaggi e sentimenti si sposano con una tenuta narrativa e spesso registica magistrale, che non confonde mai l’umanizzazione dei personaggi con l’empatia nei loro confronti, e diviene emblema di un intero microcosmo, in quel meraviglioso finale pieno di echi, suggestioni, tensioni, paure e attese.
Quelle che forse non lasceranno mai la mente e il corpo di Tony.
E sicuramente non lasceranno mai la mente dello spettatore.
TITOLO ORIGINALE: Made in America
PRIMA TV USA: 10 giugno 2007
PRIMA TV ITALIA: 27 dicembre 2007, Mediaset Premium
9 maggio 2008, Italia Uno
REGIA: David Chase
SCENEGGIATURA: David Chase
CAST: James Gandolfini, Lorraine Bracco, Edie Falco, Robert Iler