ILLUMInazioni 54 Biennale Internazionale d’Arte di Venezia

Buone le intenzioni, scarsi i risultati

In termini eloquenti e forse provocatoriamente voluti l’edizione 2011 della Biennale evidenzia uno stato sconquassato e caotico dell’arte dove ancora non esiste una via alternativa per fissarne più motivanti convenzioni.

Della grande kermesse che invade la città per alcuni mesi, senza dubbio rimane aperta la questione che si riflette su che cosa veramente rappresenti l’arte al di fuori dei soliti cliché del “sistema arte”, gallerie, musei, istituzioni varie, economia, mercato, mecenatismi e committenze incluse dove in molti si arrogano il diritto di sproloquiare assumendo ruoli che poi non sarebbero in grado di gestire nemmeno per specifica competenza.

Che uno ci creda o no, di positivo è che l’arte costituisce ancora una via di ricerca alternativa ad altri saperi comunque in crisi in ambito culturale, a cominciare dal settore scientifico e finendo a quello economico che per quanto riguarda i risultati non godono affatto di quelle certezze che tanto ostentano di mantenere. Senza dubbio nella ricerca si dovrebbe proseguire sulla via aperta dai rapporti interdisciplinari da rinvigorire nell’ambito degli studi comparatistici.

A differenza dei tanti saloni iperspecializzati, l’artista, quando è un vero ricercatore, è naturalmente predisposto a tali confronti, vedi gli esempi di Leonardo, Picasso o Duchamp. Per tutti questi motivi sarebbe auspicabile vedere una Biennale che riprendesse la sua stupenda idea originale, sul solco tracciato delle aperture internazionali già istituite con i padiglioni più rappresentativi dei fenomeni artistici dei singoli Paesi del mondo dove non sempre il concetto di arte, quello maggiormente in voga in occidente e che vogliamo a ogni costo esportare, corrisponde a concezioni sentite e stabilite in altri ambiti culturali delle più diverse aree geografiche.

E questo era ed è l’aspetto che caratterizza tali manifestazioni rispetto ai Salons parigini ai quali inizialmente pure s’ispiravano. Senza dubbio inalterata nel tempo rimane la cifra distintiva rispetto ad altri eventi qui e lì proliferati. La differenza implicita nelle manifestazioni veneziane può essere, quindi, ancora una volta riconducibile a un problema di comprensione convenzionale di categorie concettuali come quelle di “spazio e tempo” che fino ad ora hanno condotto erroneamente a condividere un’idea evoluzionistica del cosiddetto progresso umano deteriorandosi poi in luoghi comuni che portano a travisare un’oggettiva comprensione della tradizione, troppo spesso intesa come semplicistico e sterile anacronismo. Paradossalmente ecco che allora nel tempio del così decantato “contemporaneo” si espongono i Tintoretto, il che assume quasi un valore escatologico come se si dovessero espiare chissà quali colpe che, in tal modo, si ammette di aver commesso o che per lo meno riconduce a poco coerenti affermazioni del tipo “quanto erano bravi gli artisti nel ‘500”. E tutto ciò sembra riflettere un atteggiamento bigotto, oltranzista e di becero integralismo, da nuovi crociati di Comunione e Liberazione per intenderci, e non frutto di autentica fede e devozione anche nei confronti dell’arte, fattore che rimane del tutto intimo pur se a volte, magari lo fosse spesso, condiviso come appare esserlo in queste occasioni.

Alla fine, pertanto, non costituisce niente di eccezionale nemmeno lo spostamento dei tre Tintoretto nell’ex padiglione Italia; ed è sicuramente tutta un’altra cosa vedere l’Ultima Cena nella sua sede originaria, all’interno della chiesa di San Giorgio Maggiore, per il cui presbiterio Tintoretto concepì, pochi anni prima di morire, l’opera che in quel luogo appare sicuramente più straordinaria. In tal senso si ripropone il problema di leggere quanto più è possibile contestualizzate le opere nelle sedi naturali per le quali furono dagli stessi artisti ideate, vale a dire con quella luce, con quello spazio, con quelle intenzioni.

Anche in questo caso si alimenta solo la polemica che investe, senza scalfirla più di tanto, Bice Curiger pressoché completamente oscurata dall’invadente esuberanza mediatica di Vittorio Sgarbi, protagonista assoluto e indiscusso del Padiglione Italia che tuttavia, nelle celebrazioni dei 150 anni di esistenza dello Stato unitario, rimane esiliato all’Arsenale.