Public Enemies è di sicuro un film che avrà un grande impatto: non solo per i quasi 100 milioni di dollari necessari per finanziarlo, ma anche perché Mann lo definisce come un’opera sperimentale. Strano? No, se si tratta di ricostruire alla perfezione la scenografia degli anni Trenta in America, in piena depressione, per raccontare la storia del gangster John Dillinger.
A sorreggerlo nella fatica c’è il magnifico scenografo Nathan Crowley, che in quest’opera ha dato tutto se stesso: le scene sono al contempo eleganti, piene di vita ma non appesantiscono l’occhio dello spettatore. Anzi, colmano in modo superbo i vuoti senza far attrarre troppa attenzione su di sé, come un eccellente aiutante del prestigiatore Michael Mann.
Non tutto l’oro, però, vien da dietro la macchina da presa: Johnny Depp nel ruolo del protagonista/antagonista John Dillinger, di professione gangster, e Christian Bale in quello dell’agente FBI Melvin Purvis, che gli dà la caccia, hanno sicuramente aiutato molto il regista nel non facile lavoro di raccontare una storia drammatica con un’azione sempre presente.
Dillinger appare carismatico e pungente, un uomo complesso e non di rado dai risvolti tristi, senza mai ricadere nell’eccesso del melodramma. La sua storia ricalca quella del leggendario Robin Hood, seppur con meno principi etici: il gangster americano, realmente esistito, rapinava le banche che durante la Depressione avevano impoverito le tasche dei cittadini. Certo, da qui al motto ‘rubare ai ricchi per dare ai poveri’ di strada ne deve passare ma, forse come unica scusante, si può dire che Dillinger si considerava povero.
Ogni cosa nel film è in pieno stile anni Trenta: dalle scenografie, come detto, ai comportamenti dei passanti, delle comparse, i gesti stessi degli attori minori; per usare le parole di Mann: “Renderlo vivo proprio come se fosse oggi. Questo non significa solo mostrare come erano le cose, ma come pensava la gente. Come gli uomini corteggiavano le donne nel 1933. Cosa pensavano degli ex detenuti della vita e del loro destino. Che cosa significava il mondo materiale per quelli che erano affamati e reietti. La disperazione per le strade.”
Il regista statunitense ammette che questa pellicola rappresenta per lui una sorta di sfida, inclassificabile, con una netta chiarezza all’interno della sua filmografia, più un esperimento visivo-narrativo che si è proposto di fare. Forse gli altri produttori la penseranno diversamente ma il fatto che fra loro ci sia anche Mann dà una certa sicurezza sul risultato.
Come mai un film su Dillinger? “Quello che muoveva Dillinger, e che mi ha interessato, era la sua sete di vita: un uomo giovane, chiuso in prigione per 10 anni, che esce e vuole tutto subito e il fatto che tutto sia avvenuto in nove settimane, questo ha creato la sua leggenda” spiega in un’intervista Michael Mann, che poi si sofferma a delineare i vantaggi delle riprese digitali rispetto alla classica pellicola.
“[…] per me il vantaggio principale è ciò che il digitale mi consente di fare, 8-9 volte di più che con la pellicola. Lì bisogna sottostare alla chimica, qui ho più capacità di intervento, una qualità che punta al dettaglio, ma il digitale è utilizzabile anche in modo che non si veda la differenza con l’analogico. Il che, però, non significa che non tornerò alla pellicola, che mi piace molto.”
E, probabilmente, il futuro del cinema dovrà essere legato a questa strada. Certo, come dice Mann, magari senza abbandonare la buona vecchia celluloide.
Foto a cura di Romina Greggio Copyright © NonSoloCinema.com – Romina Greggio