Ammette lo stesso Richard Gere, primo ospite del nuovo ciclo del “Viaggio nel Cinema Americano” al Festival del Film di Roma 2009, che certe domande possono essere poste solo dal pubblico del nostro paese, dove la vita degli attori viene idealizzata e risulta impossibile agli occhi di molti capire come questa possa conciliarsi con un forte impegno civile: “Non esistono due mondi, non c’è dualismo: nel mondo della spiritualità dev’essere la propria motivazione a sospingerci, come insegna il buddismo, verso l’estrema felicità”. Poi non si sottrae all’analisi sul problema cinese in Tibet, ponendo l’attenzione sul paese occupante, dichiarando che la Cina sta sottovalutando il problema di un popolo che quando si lascerà completamente alle spalle l’ideale comunista, si ritroverà allo sbaraglio e invece nella figura del Dalai Lama potrebbe ritrovare la luce che è per il mondo per la sua saggezza e la sua gioia.
Gere, come George Clooney, protagonista del film in concorso presentato in concorso Up in the air di Jason Reitman, inoltre pensa che gli attori possono essere lo strumento per dare visibilità in alcune zone dove non è il caso che i riflettori si spengano. Questo vale per Sulmona, dove Clooney sta girando L’americano con accanto Violante Placido. Per Gere il discorso vale per il Tibet, anche se ammette: “Forse sono riuscito ad attirare l’attenzione su quel dramma ma non so se sono riuscito ad aiutare il popolo tibetano. Forse quello che può fare un attore è aprire una porta. E’ una responsabilità che abbiamo tutti. Qualunque sia la nostra capacità dobbiamo fare qualcosa per cambiare il mondo che ci circonda. Possiamo raggiungere tanti universi. Deve portare molta energia a favore di una causa”.
L’ex cadetto di Ufficiale gentiluomo è molto sereno seduto accanto a Mario Sesti e Antonio Monda, curatori della sezione Extra, e cerca la partecipazione del pubblico in sala che purtroppo continua ad amare sopratttto i suoi film cult, da Pretty woman ad American gigolo anche se l’attore americano ammette che il suo film più significativo è sicuramente I giorni del cielo di Terrence Malick, il suo primo ruolo che gli valse un David di Donatello (il film fu premiato al Festival di Cannes). L’attore ricorda che iniziarono a girare quando aveva 26 anni e il film uscì ben 3 anni dopo perché solo il montaggio richiese un anno di intenso lavoro per la maniacalità del regista e perché nella fase iniziare delle riprese la situazione era molto deprimente perchè il regista non riusciva a dire agli attori che cosa volesse da loro. Poi la situazione ebbe un’evoluzione: “Un giorno Malick mi disse: la vita accade e basta. Allora capii come anche noi per il regista fossimo come gli elementi, come l’acqua, il fuoco la terra. E questo per me è stato fondamentale”.
Poi, rivedendo la sequenza di America gigolò, Gere si commuove ripensando a Nando Scarfiotti, scenografo del film che riuscì a dare una visione che volutamente risentiva molto del lavoro che l’artista italiano aveva realizzato con Bertolucci per capolavori come Ultimo tango a Parigi, L’Ultimo imperatore, Il te nel deserto e Piccolo Buddha.
Partendo da Malick non si poteva non ricordare anche altri due registi molto importanti per la carriera di Gere: Kurosawa, definito “il maestro”, e Altman con il quale girò Il dottor T e le donne e che definisce prima di tutto “un amico e un artista che ha un’idea ben precisa di cosa sia reale e cosa no”.
E per ultimo Coppola che lo volle per Cotton Club: “Francis vivera un periodo particolare e gli era difficile sedersi a scrivere una sceneggiatura e quindi mi chiese di lavorare senza una sceneggiatura. Lo adoro da sempre per il suo senso dell’epica: la capacità di narrazione, di coinvolgimento, di movimenti di camera de Il padrino 1 e 2, secondo me rimaranno ancora a lungo come pietre miliari della cinematografia mondiale”.
Foto a cura di Romina Greggio Copyright © NonSoloCinema.com – Romina Greggio