“Io sono l’amore” di Luca Guadagnino
Orizzonti
Mostra del Cinema di Venezia, sezione Orizzonti. In sala, Tilda Swinton, Marisa Berenson, Pippo Delbono, Luca Guadagnino, Patrizia Pellegrino e molti altri. Sullo schermo, la storia di Emma, piacente signora borghese che trascorre una vita dorata nella grande villa milanese del marito, figlio e successore di un grosso industriale dei tessuti. Il tessuto che compone la famiglia è però liso e sfilacciato, soprattutto da quando è entrato in gioco il giovane Antonio, la cui naturalezza ha colpito e sconvolto la vita congelata della padrona di casa.
Il film di Luca Guadagnino mette in scena la storia di una famiglia di industriali che va incontro, meno volontariamente di quel che sembra, alla sua autodistruzione. I Recchi sono una di quelle famiglie borghesi che vivono in una fortezza sociale che più inespugnabile non si può; seguono coscienziosamente tutte le regole che hanno creato tanti anni fa, come l’obbligatorio amore per lo sport (soprattutto per la competizione), per la vita mondana impeccabile e ingessata, l’attenzione alle apparenze, il progressivo allontanamento da qualunque debolezza umana, un po’ di snobismo. La bella Emma, di origini russe, è l’infelice first lady della casata: madre di figli splendidi, dovrà aprire gli occhi non solo su quanto sia stato difficile per lei rinunciare alla propria umanità, ma anche a quanto sia definitiva la scelta che si deve compiere per sopravvivere in un simile ambiente: essere veri o essere Recchi. I veri Recchi invece non possono esistere.
Iniziamo questa recensione con una metafora: Io sono l’amore è un coltello impazzito. Non si sa come maneggiarlo, sembra seguire una linea tratteggiata ma poi di colpo si ribalta, facendo trovare in mano allo spettatore la parte che invece andrebbe tenuta più lontana da lui. Poi si muove ancora, e non si può far altro che lasciarlo cadere per terra, fino a quando non si decide di raccoglierlo di nuovo.
Metafora: sostituzione di un termine con una frase figurata legata a quel termine da un rapporto di somiglianza.
Insistiamo sulla metafora perchè di questa figura retorica è maggiormente composto il film. Un’opera filmica, basata su immagini analogiche, può giocare spesso, e con ottimi risultati, con questo strumento. E poi, le metafore piacciono a tutti. Ma quand’è che diventano eccessive e ridicole?
La trama del film è complessa, apre molte porte; ma poi l’attenzione passa ad un sottotesto che inficia e appesantisce l’intera operazione. Emma, donna straniera spogliata di qualunque appartenenza, come sua dote e stemma, porta con sé e trasmette al figlio l’amore per una ricetta del suo paese. Da qui, il tema del cibo come legame alla realtà, allo stomaco. Non a caso il suo giovane amante è un cuoco. A sua volta, il cuoco la porta a fare l’amore all’aperto; e quando lei assaggia un suo piatto sente un’esplosione di vita. Nel frattempo, la figlia si dichiara lesbica (ma lo dice solo alla madre la quale, amorevole, comprende senza dire una parola) e torna da Londra con vestiti mascolini e i capelli corti. Allo stesso modo quando Emma avrà il suo primo amplesso con Antonio, anche lui le taglierà i capelli. La forza del sacrificio, della sofferenza silenziosa, ma anche della ribellione alle convenzioni passerà proprio attraverso le donne della famiglia.
Si potrebbero riportare ancora mille e mille legami sotterranei, ma questi possono bastare per capire il tipo di trattamento che il regista opera sul plot. Inoltre, sono sufficienti anche per notare quanto siano pesanti certe scelte. Il tema del cibo, il colombo imprigionato nella cupola come simbolo di prigionia dorata, le api sui fiori che compaiono al momento dell’amplesso campestre sono sempre soluzioni visive o piuttosto ricordano certe ingenuità da film parrocchiale? Queste trovate potranno anche essere una presa di posizione coraggiosa, ma sono troppe, banali e fanno annegare il film, che perde così l’occasione per sviluppare altre tematiche. Se Io sono l’amore voleva essere una sorta di La caduta degli dei (altro film molto discusso e discontinuo, tra l’altro) del primo millennio, forse era il caso di dare maggior peso alle figure maschili, per contrapporle al delicato universo femminile; invece, la grettezza degli uomini e la loro chiusura verso la vera umanità rimangono semplici accenni.
Del film, le scelte più interessanti sono delle tecniche di ripresa e di montaggio coraggiose (la rappresentazione della villa, tutta a spigoli e cancelli; certe scelte di illuminazione antinaturalistiche e simboliche, un montaggio frammentato), i costumi, la gioielleria perfettamente borghese: tutte componenti che si inseriscono nuovamente nell’idea centrale del film ma che, meno gridate, non lo soffocano.
Proprio per questo suo continuo annaspare, incidere e nel contempo lacerare, possiamo ritornare alla metafora del coltello, e definire Io sono l’amore un film a doppio taglio: ogni sequenza, ogni scelta è forse ragionata ed “artistica”, ma costringe l’opera a camminare sempre sull’orlo del precipizio, e spesso ve la fa cadere. Ciò che, analizzato nel dettaglio, può essere interessante e piacevole, nell’economia dell’intero corpo filmico diviene appiccicoso e risibile. Come un ciuffo di capelli corti nel mezzo di una chioma fluente, come un pezzo di ottimo cioccolato in una zuppa di pesce.
Titolo originale: Io sono l’amore
Nazione: Italia
Anno: 2009
Genere: drammatico
Durata: 120’
Regia: Luca Guadagnino
Cast: Tilda Swinton, Flavio Parenti, Alba Rohrwacher, Pippo Delbono