L’impero metalogico di Rob Zombie

“Le streghe di Salem” di Rob Zombie: una presa di posizione radicale circa le potenzialità del linguaggio filmico.

C’è oggi un regista, autore o film-maker – come qualche anno fa John Carpenter definiva se stesso, forse spaventato dall’etichetta di auteur attribuitagli dai Cahiers du Cinéma e incerto circa la definizione da attribuire alla propria statura di cineasta – che incarna la nuova concezione del cinema di genere indipendente, cinema radicale che non guarda in faccia a nessuno, come lo era quello di Godard, Buñuel o Jess Franco. Si tratta di un cineasta che perviene ai territori della settima arte da un campo artistico limitrofo, quello della musica. Ha molto in comune con Carpenter, possiede – come scriveva Kezich riguardo allo stesso Carpenter nella recensione di uno dei suoi primi capolavori, Assault on Precint 13 (1976) – un orecchio particolare per il rapporto tra suono e immagine ed è autore del recente Le streghe di Salem (The Lords of Salem). Parliamo ovviamente di Rob Zombie, fondatore, cantante e compositore della band dei White Zombie e, da qualche anno, il più importante e controverso autore del new horror statunitense.

Ma… che succede? Non facciamo in tempo ad appioppare un’etichetta – House of 1000 corpses (2003), The devil’s rejects (2005) e i due Halloween (2007 e 2009) sono indubbiamente degli horror – che ci troviamo nella necessità di tradirla. L’ultimo lavoro del regista statunitense, infatti, The Lords of Salem, è tutto tranne che un horror. Per discutere di che cosa è The Lords of Salem bisognerebbe aprire una tavola rotonda, invitando al “certamen” i defunti Ken Russell, Antonin Artaud e Lucio Fulci. Non essendo ciò possibile, mi limiterò ad esprimere qualche opinione personale in merito.

Dunque, dicevamo: The Lords of Salem non è un horror. Malgrado le apparizioni di streghe defunte in piena decomposizione, le melodie demoniache (in realtà un accrocchio cromatico trattato timbricamente con processi elettroacustici di modificazione del suono), le messe nere con spreco di particolari ributtanti, gli omicidi efferati compiuti nei salotti in piena luce del sole, l’ultima fatica di Rob Zombie eccede i confini del cinema di genere, rivelando l’emergere di una complessa (e compiuta) ambizione autoriale. I prodromi di questa mutazione erano già individuabili nel sottotesto di The devil’s rejects, commovente elegia della libertà e del libero arbitrio di compiere il male – quello socialmente codificato. Se in The devil’s rejects l’elemento eversivo si manifestava nelle scelte visuali e sonore strutturate all’interno di un piano narrativo classico (un asse temporale frammentato ma diegeticamente monolivellare che porta a un dénouement caratterizzato da una presa di posizione ideologica espressa attraverso i canoni del cinema di genere) qui, il libero arbitrio evade dalla narrazione e invade il campo della sintassi cinematografica. Il tratto distintivo che ci spinge a scomodare nomi quali il Ken Russell di The devils (1971), Altered States (1980) e Gothic (1986), il Jean-Luc Godard del terzo periodo, il Buñuel più surrealista e il Jess Franco di Les cauchemars naissent la nuit (1969), è la radicale, lucida e potente presa di posizione di Rob Zombie nei confronti delle potenzialità del linguaggio filmico.

Il plot di The Lords of Salem è quello di una vendetta che si consuma a secoli di distanza. Nel 1696 un manipolo di puritani capitanati dal reverendo Jonathan Hawthorne (alias Andrew Prine, ma avrebbe dovuto essere Richard Lynch, deceduto durante le riprese) mettono al rogo le streghe di Salem. Oggi, la discendente diretta del reverendo, interpretata da una Sheri Moon la cui bellezza altera rievoca nobili portamenti di scream queen quali Karen Black e Barbara Steele, diviene lo strumento di rivalsa da parte delle discendenti delle streghe nei confronti di tutte le donne di Salem. La vendetta si compie attraverso la musica e raggiunge il suo culmine in un rituale concertistico-orgiastico-suicidario ambientato all’interno di un teatro. Quale migliore mise en abyme di un sacrificio simbolico attuato attraverso l’arte della rappresentazione?

Rob Zombie si sente europeo e non risparmia le citazioni al (nostro ma non solo) glorioso cinema di genere degli anni settanta e ottanta, l’artaudiano Lucio Fulci di L’Aldilà – E tu vivrai nel terrore (1981) in primo luogo. Grazie all’abilità del direttore della fotografia Brandon Trost (già utilizzato da Zombie in Halloween II) non mancano i riferimenti – soprattutto cromatici – all’Argento di Suspiria (1977), e al primo Carpenter – quello da Assault on Precint 13 fino a Prince of Darkness (1987), tanto per intenderci – dal quale mutua la lezione hawkesiana circa le geometrie formali e quella fordiana circa l’univocità dell’occhio filmico (“c’è un solo punto dal quale riprendere una scena, quello giusto”). Oltre a questo, spuntano in più di un’occasione la propensione all’onirico dell’ultimo Fellini e lo Jodorowsky surrealista di Santa Sangre (1989), oltre alla gloriosa anarchia di Russell, del quale Zombie cita persino una delle opere minori e più misconosciute, The Lair of the White Worm (1989), da Stoker.

Un recensore illustre e molto à la page ha recentemente scritto che la trama di The Lords of Salem è un “canovaccetto” che “accumula scene, immagini alle quali non si riesce a star dietro come logica anche minima”. Ricordo che quando uscì Mulholland drive (2001) di David Lynch ci furono reazioni similmente miopi di fronte alla complessità e alla multilivellarità del plot di lynchiano (una metà del film è la rappresentazione idealizzata e compensatoria dell’altra; viene soltanto omessa la tematizzazione dello slittamento di livello operato dal regista sul piano linguistico), che pochi anni dopo avrebbe chiarito definitivamente la sua posizione in merito con il lucido, barocco teorema di Inland Empire (2006). Non credo di scomodare invano il nome di Lynch, in quanto è mia ferma convinzione che il film di Rob Zombie si inscriva esattamente nello stesso ambito (colto ed europeo) di ricerca radicale sul linguaggio al quale appartengono gli ultimi film di Lynch, alcune opere di Fulci, parte della cinematografia argentiana, i lavori più sperimentali di Russell, Jodorowsky, Bunuel, Franco, e la lista sarebbe lunga (volutamente non includo Carpenter, nume tutelare di Rob Zombie su un piano puramente stilistico, non contenutistico).

Quella che accomuna Rob Zombie ai nomi precedentemente citati è la scelta cosciente, maturata nel tempo e affinata attraverso l’esercizio dell’artigianato filmico, di una ricerca visiva, narrativa – sensoriale, verrebbe da dire un po’ deleuzianamente – che sconfina a tratti nella videoarte in cui nulla è illogico o casuale in quanto la logica che organizza le strutture formali e sintattiche – in misura maggiore o minore, a seconda dei casi – di queste opere (o meglio, di queste poetiche autoriali) è di carattere intensionale, ovvero una metalogica.

La musica nel film di Zombie è centrale (lo è al punto che il regista-musicista si chiama fuori dalla composizione della colonna sonora, incaricando John 5 ovvero John William Lowery, chitarrista negli album solisti di Rob Zombie), non solo sul piano diegetico; essa ricopre un ruolo metaforico che ricorda quello dell’incedere della nebbia in The fog (1980) di Carpenter. In The Lords of Salem la musica è evocatrice di un altro linguistico che si manifesta lacanianamente attraverso un spostamento di senso nel rapporto tra le parole e le cose. Ciò che accade a Sheri Moon – e alle donne di Salem – è una graduale presa di coscienza circa l’ambiguità strutturale, profonda della descrizione del mondo ad opera del linguaggio. Oltre il soggettivismo e il concetto di verità, con le divagazioni heideggeriane che richiama, il cinema più recente di Zombie, così come quello dei suoi illustri predecessori, apre a suggestioni metalinguistiche, spingendosi fino a rappresentare il processo di defocalizzazione tra senso e significato (le presunte allucinazioni di Sheri Moon, la stanza-cattedrale dalle dimensioni cangianti, le apparizioni demoniache caratterizzate da iconografie tra il pop e il surreale, la progressiva deriva verso il rituale orgiastico finale, culminante nella splendida inquadratura-icona di Sheri Moon dagli occhi svuotati che troneggia su una pila di corpi nudi), ovvero il “divario tra referente e immagine” (Umberto Eco, Sugli specchi) che è proprio della contemporaneità (secondo la concezione proposta da Agamben nel breve saggio Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, 2008), lo iato, il “sospetto di potenziale assenza” di logica che non deve trarre in inganno, in quanto “l’oggetto dovrebbe esserci ma potrebbe anche non esserci”. E’ proprio questa ambiguità, in grado talvolta di suscitare una potente fascinazione, il cuore e l’anima della sperimentazione linguistica applicata all’arte – a qualsiasi forma d’arte, compresa quella cinematografica.

In un precedente articolo, datato 7 maggio 2010 (Eisner e Romero: i due volti della paura, in NSC anno VI n. 15), scrissi che “Rob Zombie potrebbe essere individuato quale delirante elemento ponte tra le due estetiche, novello John Cage o Frank Zappa del cinema estremo, oggetto non identificato, né ancora adeguatamente approfondito”. Tanto maggiore appare oggi questa urgenza di approfondimento e di indagine intorno a un objet ambigu che definisce, in modo un po’ naïf, The Lords of Salem “un dramma dai risvolti psicologici in grado di lasciare delle porte aperte”.

Da segnalare le presenze “mancate” di Camille Keaton, Sid Haig, Michael Barryman e Udo Kier, tutti tagliati in fase di montaggio a causa del decesso di Richard Lynch, che costrinse Zombie a rigirare interamente il prologo.

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