La ricerca di sè nel paese (digitale) dell’impossibile

La Alice di Burton è un prodotto singolare, in quanto prende le distanze sia dai due racconti di Carroll che dalle precedenti versioni cinematografiche. E, almeno in apparenza, sembrerebbe distanziarsi anche da buona parte della cinematografia dello stesso Burton che qui, forse, soffre il giogo della produzione Disney, con tutte le limitazioni espressive che questo comporta verso la fantasmagoria oscura e fascinosa del regista che proprio alla Disney aveva mosso i suoi primi passi come illustratore. Tuttavia, si tratta solo di un “effetto di superficie” perchè, sotto la patina digital-hollywoodiana, le tematiche sono le stesse che hanno illuminato il cinema di Burton (o almeno la parte migliore di questo, tralasciando scivoloni come “Planet of apes”) dai tempi di “Beetlejuice” (ma già erano chiare nei corti, come “Frankenweenie”) sino ad oggi.

Degli originali letterari mancano la complessità ed il carattere visionariamente eccessivo e tuttavia rigoroso, cifra del primo Alice in wonderland mentre, a tratti, spunta l’aura malinconica che permea Through the looking glass.
Riscrivendo la storia come metafora della graduale (ri-)scoperta di sè contro il conformismo che vorrebbe Alice in moglie a uno stolido lord inglese-burattino, Burton ci regala un incipit d’autore in cui il padre di Alice la consola dopo un brutto sogno rispondendo ai dubbi della piccola (la scena si svolge tredici anni prima rispetto al nucleo narrativo principale del film) circa la propria sanità mentale con un fantastico “Certo che sei matta. Ma ti dirò una cosa: quasi tutti i migliori lo sono”. Frase che sintetizza in pochi secondi il senso del cinema burtoniano, che è e rimane resistenza contro l’avanzare dell’omologazione conformistica sempre più spesso spacciata per progresso (vedi alla voce “globalizzazione”), forte anche dell’impreparazione delle masse a fronteggiare attacchi multistrutturati alla soggettività e alla creatività.
In questo senso, la rappresentazione socioculturale di Alice operata da Burton ha dei punti di contatto con opere quali I’m a legend di Richard Matheson.

Un altro punto a favore del film è la splendida caratterizzazione del Cappellaio messa a punto da Johnny Depp, ormai il migliore della sua generazione. Folle ma disperatamente lucido, continuamente sull’orlo del precipizio della perdita di sè, borderline ma ancora intatto in qualche modo, irreparabilmente privato di una parte di (del) sè (simboleggiata da un passato continuamente rincorso e mai più raggiungibile) come Edward lo era delle mani, sostituite da lame con le quali imparare a toccare il mondo senza farlo sanguinare, il Cappellaio di Depp è vero, struggente, doloroso, lunare, aeriforme eppure più reale di un mondo (la società vittoriana) che sembra in bianco e nero rispetto al paese che esiste solo nella mente di Alice. I riferimenti a Nightmare before Christmas e The corpse bride sono quelli più evidenti. Meno evidenti quelli a “Ed Wood” in cui i film deliranti del “peggior regista del mondo” sono l’equivalente del Sottomondo di Alice, Martin Landau incarna il passato mitico ed arcaico da inseguire (e anche in quel caso perdere) e Depp riesce a essere sia Alice che Cappellaio (non a caso il suo personaggio è profeticamente indeciso tra un’identità maschile e una femminile). Per Johnny Depp, la galleria di personaggi divisi in due, lacerati (qualcosa di meno di un essere umano e allo stesso tempo qualcosa di più) tra inconsapevolezza e dolorosa memoria, malati di desiderio/nostalgia per qualcosa di sconosciuto e insieme perduto si arricchisce qui di un’altra interpretazione magistrale.

Quello che funziona meno, invece, è l’operazione di de-complessificazione operata sui testi carrolliani, portata sino al punto da confondere i ruoli delle due Regine. Infatti, alla fine, è la Regina Rossa a passare da emarginata, ingiustamente discriminata per la sua imperfezione fisica a dispetto della maggiore età – e quindi della legittimità alla corona – rispetto alla sorella, tanto eterea e perfetta quanto vacua.

Figurativamente il film è assai ricco di intuizioni raffinate, tuttavia la CGI è a tal punto strabordante (in pratica gli attori hanno recitato sempre su blue screen, utilizzando tecnologie di “live action” e “motion capture”) da suscitare un senso di straniamento che alla lunga rischia di rendere stucchevoli anche i preziosismi più indovinati (e sono molti).
Mia Wasikowska è perfetta (in tutti i sensi) e fornisce un giusto contrappunto al magnetismo di Depp.
Peccato per le voci originali, andate perdute nel doppiagio, tra cui Alan Rickman e Christopher Lee – doppiaggio che, bisogna dirlo, per una volta è stato realizzato a regola d’arte. I costumi sono azzeccati e le musiche di Elfman, come sempre, funzionali, con qualche guizzo di originalità.

Cosa rimane? Senza dubbio, quello che ha affermato lo stesso regista nelle interviste di lancio del film: la storia di una ragazzina alla ricerca di sè stessa e della propria maturità, a dispetto dell’azione destabilizzante dell’adolescenza e delle pressioni di un mondo che continua ad avere paura del diverso. E, filmicamente, a dispetto anche degli eccessi di CGI, del parziale travisamento di alcune importanti istanze dell’opera del reverendo Dodgson e di una produzione troppo pavida per supportare una cinematografia complessa e articolata come quella di Burton.

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