In un mondo come il nostro, vòlto con sempre più consapevole determinazione, ad est e ad ovest, a nord e a sud, alla ricerca e all’impiego delle competenze e dei talenti, non mi pare che sia il caso, da parte degli scrittori, di invocare una inserzione, nell’ingranaggio della gran macchina produttiva, ancora più diffusa e completa di quella attuale. La stampa quotidiana e periodica, la radio, la televisione, il cinema, gli uffici di pubblicità dell’industria pesante e leggera, gli uffici stampa dei ministeri, gli uffici studi delle banche, le segreterie pubbliche e private degli uomini importanti, le case editrici, le compagnie di navigazione (quella marittima, e quella aerea), le aziende di cura e di soggiorno, eccetera: oggi non c’è organismo, direttamente o indirettamente connesso col «fare», non c’è fonte diretta o indiretta di produzione economica, che, molto o poco, di continuo o saltuariamente, non sfrutti l’ingegno e la penna di qualche esponente della classe a cui mi onoro di appartenere. Non vorrei ferire nessun disoccupato. Però, diciamo la verità: se gli scrittori, oggi, aspirano a essere utilizzati, non hanno, di solito, che l’imbarazzo della scelta. L’ arruolamento, in genere, è abbastanza sicuro.
I miei colleghi, comunisti e socialisti nenniani, si lagnano spesso perché il «Corriere della Sera» o «La Stampa» non li invitano a collaborare alle loro belle, e utili, terze pagine. Ma politique d’abord, come essi stessi insegnano; e poi, se sono sinceri, debbono ammettere che ad uno scrittore di sinistra (basta rivolgersi alla stampa di partito, agli uffici elettorali, alle amministrazioni municipali dell’ex triangolo della morte nei loro ricorrenti periodi di mecenatismo rinascimentale, o magari alla Olivetti), le possibilità di impiego specifico si offrono, ugualmente, in numero più che notevole. Io, per me, non sono comunista. Alle ultime elezioni ho votato tuttavia per il socialismo, quello di Nenni; e poiché effettivamente desideravo (come tuttora desidero) l’avvento del socialismo in Italia, non ho avuto alcun ritegno, in pieno periodo elettorale, a rendere il mio voto di pubblica ragione.
Con questo, non mi sono precluso nessuna opportunità di lavoro scrittorio, che io sappia. Continuo a ricevere richieste dai giornali, anche da quelli borghesi, perché mandi articoli. Non mi è ancora mai venuto meno l’amico, impiegato alla radio o alla televisione, e anche lui scrittore, il quale, al caso, quando per me si profili una collaborazione interessante, non si affretti a telefonarmi. Sebbene, da tempo, io non mi occupi più di cinematografo con l’intensità e l’abnegazione di una volta, tuttavia non passa anno, si può dire, che non mi venga rivolto, da parte di qualche regista cinematografico, o da parte degli agenti di qualche casa di produzione, o da parte di qualche vagabonda lancia spezzata in un modo o nell’altro connessa col mondo cinematografico, l’invito a rendermi utile inventando un soggetto, elaborando un «trattamento», entrando in una équipe impegnata a stendere una sceneggiatura, fornendo, magari, una semplice «idea»: e quindi, in sostanza, a mettere la mano su un piacevole gruzzolo. No, da questo punto di vista, credo proprio che non ci si possa lagnare. Un letterato appena abile, provvisto appena appena della necessaria duttilità psicologica, di quel minimo di intuito indispensabile per inserirsi utilmente, per «ingranare»; un letterato che non voglia star lì, a sbadigliare al caffè o ai giardinetti, con Dante, Cavalcanti, Rimbaud o Montale sotto l’ascella, e un senso crescente di disprezzo per il mondo che, al solito, delle nostre epiche insonnie non vuol sapere: un letterato simile, credete a me, al giorno d’oggi può sempre cavarsela.
Ciò nonostante, non intendo affatto insinuare che il tema manchi di attualità. Tutt’altro. Se ne parlo, non è certo per fare il bastian contrario, né, tanto meno, il Candido convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. Dirò, anzi, che il tema dei rapporti fra lo scrittore e i mezzi di diffusione è, per me, del massimo interesse. Perché, sebbene io creda molto fermamente al destino di intima solitudine dello scrittore, altrettanto fermamente credo alla necessità di un suo rapporto con la società nel seno della quale egli vive, e, quindi, con gli strumenti che la società ha elaborato per fare di lui un individuo provvisto, mi si passi l’espressione, di corso sociale.
Lo so bene: bisogna servire. Abbiamo alle spalle quello che abbiamo: il fasciasmo, il nazismo, immani stermini. Nelle carceri, ai confini di polizia, sui patiboli, nei Lager, milioni di uomini, e insieme con essi alcuni dei migliori fra noi, hanno lasciato miseramente la vita. Un tale passato, noi non possiamo obliterarlo. Esso è l’amara traccia, l’orma sanguinosa che segna per sempre il nostro cammino. E come sarebbe possibile, ormai, da parte nostra, posto che siamo quelli che siamo, posto che veniamo da dove veniamo, indulgere alle ribellioni anarchiche, alle insofferenze più o meno arrabbiate, alle esibizioni più o meno autentiche di sensibilità privata, alle pretese aristocratiche , alle pose squisite, ermetiche, mistiche, alle prepotenze vitalistiche, ai sacri egoismi esistenziali? Non potendo non sapere, ormai, tutti, che abbiamo bisogno gli uni degli altri: a questo punto chi sarà tanto empio, o tanto privo di senso del ridicolo, da ritornare su delle posizioni vecchie, stantie, completamente scontate? La società attuale è quella che è: composta sempre più largamente, anche in Italia, di individui che l’industrializzazione tende a ridurre puri «transiti di cibo», come diceva Leonardo, ovvero a puri «uomini-massa», come dice il mio amico Elémire Zolla. Ma con questo? Proprio perché le cose stanno così, mai, come oggi, allo scrittore si impone l’obbligo di non tirarsi indietro, di non appartarsi, di dire la sua parola. Egli sa, del resto, non può non sapere, che l’uomo-massa non sarà mai del tutto tale. C’è, e ci sarà sempre, in lui, qualsiasi domani lo aspetti, e ci aspetti, la nostalgia della spiritualità comune, il rimorso di quel dolore, di quell’imperfezione originaria contro la quale ha voluto, e dovuto, tentare di affrancarsi, ma che resta tuttavia il segno più certo, la prova più vera, della sua umanità. Gli scrittori non possono, dunque, abbandonare i loro compagni di viaggio, per umili e semplici che siano; e non possono farlo, ripeto, perché sanno ormai molto bene che, anche essi, non diversamente da tutti gli altri, stanno nella barca comune, e che è vano, terribilmente vano, cercarne una diversa.
E così bisogna servire, rendersi utili, collaborare (e ciò sia detto senz’ombra di scetticismo, senza affatto assumere, nemmeno per scherzo, il divertente ma un poco macabro detto di Longanesi: «Ho famiglia»). L’unica cosa da pretendere sarà, se mai, un’altra: e cioè che il nostro servizio, la nostra collaborazione, non abbiano a risolversi in una alienazione della nostra natura e del nostro destino. E’ ben vero che ad ognuno di noi, in Italia e fuori d’Italia, le occasioni di lavoro si presentano di solito innumerevoli. Ma a quali condizioni? A che prezzo? Non sarà perciò giusto, per non dire indispensabile, che ad uno scrittore degno di questo nome, quando lo si richieda di una prestazione specifica, sia riservata la possibilità di difendere l’integrità spirituale de l proprio prodotto, in modo che esso raggiunga, non adulterato, intatto nella forma e nella sostanza, le menti, le coscienze, i cuori per i quali fu concepito?
Ho un amico che vive a new York, e che collabora attivamente, con racconti e reportages di un suo superiore giornalismo, ad una grande, celeberrima rivista di divulgazione letteraria. Redattore capo di questa rivista, naturalmente ricchissima, è – mi raccontava tempo fa il mio amico – una signorina di mezza età, coi capelli grigi, sorridente, estremamente garbata. Armata di lapis rosso e blu, il suo compito principale, e forse esclusivo, è quello di «rivedere per la stampa» i dattiloscritti (già accettati, si badi bene, magari già pagati) di tutti i collaboratori: al fine di omogeneizzarli, di censurarli, e di renderli il più possibile conformi ad un certo quid medium, ad un certo standard comune. Un sostantivo qua, un aggettivo là, una frasetta maliziosa racchiusa entro parentesi più oltre, più oltre ancora una parolaccia gustosa, in sé, senza dubbio, però un po’ troppo pittoresca ed eccentrica: l’istinto della garbata, terribile signorina è infallibile, la sua matita rossa e blu, ogni qualvolta cala su un testo, lo fa sempre per eliminare qualche particolarità emergente, qualche segno, troppo sfacciato, di genialità. «E’un mostro, credimi, un mostro!», piagnucolava il mio amico. E, attraverso le cornee leggermente itteriche dei suoi meridionali occhi bruni, fuoriuscivano tali lampi di odio impotente (c’era, oltre tutto, l’Atlantico di mezzo), che non mi meraviglierei affatto, un giorno o l’altro, aprendo un giornale americano, di trovarmi di fronte a un titolo del genere:
SCRITTORE IMPAZZITO STRANGOLA CON LE PROPRIE MANI UNA NOTA REDATTRICE LETTERARIA
Il caso del mio amico è abbastanza tipico. L’atroce signorina, dai capelli grigi e dal lapis rosso e blu, io non la conosco personalmente, forse non la conoscerò mai. Non importa: so benissimo di che razza di personaggio si tratta, conosco alla perfezione le ragioni per le quali agisce come agisce, riesco perfino a rendermi conto del sottile piacere, modestamente sadico, che essa ricava dal suo lavoro. Anche qui da noi, in Italia, spesseggiano uomini e donne consimili, preposti a funzionare da tramite, da setaccio, fra gli scrittori e i mezzi di diffusione a largo raggio della cultura.
Da quando scrivo, e sono più di vent’anni, ormai, io stesso ho avuto a che fare continuamente con costoro, soprattutto con costoro.
Con un po’ di pazienza, credo che potrei mettere insieme, a questo punto, una galleria di ritratti piuttosto gustosa. Mi limiterò a darne soltanto qualcuno.
Ecco dunque il produttore cinematografico, che da ragazzo nutriva ambizioni letterarie, e adesso, da dietro il suo enorme tavolo «controriforma», sembra non nutrire altra ambizione all’infuori di quella di far pagare a te, che ancora non molli, la sua propria defezione. «Letterario», per lui, è aggettivo da pronunciarsi piegando inevitabilmente le labbra in una smorfia di disprezzo.
Se un soggetto, un trattamento, una sceneggiatura, non gli vanno, non dice che non vanno: dice che sono letterari. E se devi, perché non puoi altrimenti, sottostare alla sua ferula; se insomma lui può, appena poco, farti ballare sul palmo della mano: allora lo farà a suo talento, fino al termine della voluttà ed altre, non importa se a proprio danno, magari. Prova pure a obiettare, osa pure resistere, se ne hai voglia: alla peggio, quando se la vedesse proprio brutta, egli sarà sempre pronto a evocare il Pubblico, l’eterno Pubblico, enorme fantasma senza volto con il quale lui solo è in rapporto simpatico. Nessuno di voi avrà dimenticato il tipo di produttore cinematografico che appare nel Disprezzo di Moravia. Sono proprio così: ne ho conosciuti, io stesso, almeno una decina.
Ed ecco il direttore di giornale, o meglio del grande rotocalco a grande tiratura. Anche costui fu scrittore, un tempo. A vent’anni, pubblicò un volumetto di versi, a ventitré, un libro di racconti di argomento provinciale, a trenta un romanzo. Poi, il giornalismo lo prese; ovvero fu lui, ma il risultato non cambia, ad afferrare il giornalismo. Cause: le solite, si sa: la moglie bella, piene di pretese, i figli troppo amati, l’ambizione politica…Comunque sia andata, sta di fatto che adesso è là, a darti del letterato, cioè dell’acchiappanuvole, e magari a dichiararti, senza tante cerimonie, che la buona prosa, la vera prosa «moderna», è quella che egli scrive, e pretende si scriva, sul suo giornale, non già quella del tuo articolo: il quale avrà tante belle qualità, però gli manca quella, fondamentale, di essere fatto come si deve, tagliato a regola d’arte, in quel certo modo che al pubblico piace. Il pubblico chiede…, il pubblico vuole…, il pubblico non sopporta…, al pubblico non bisogna dare…Dice, sentenzia, pontifica: e c’è chi gli crede, chi lo sta a guardare e a sentire affascinato, come se lui pure, col pubblico, fosse in comunicazione diretta e continua. E invece il pubblico, di cui parla, non esiste. Quel famoso, fantomatico pubblico, grande e grosso come un bestione preistorico, e stupido come un bimbo affetto da mongolismo, non è che lui stesso.
E che dire del tipografo, tanto invasato del suo mestiere da importi, per mere ragioni di estetica impaginativa, l’amputazione spesso sostanziale e irreparabile di un tuo scritto? Che dire del tecnico della radio, il quale, in nome di un’altra estetica, quella radiofonica, pretende che il tuo stile ne tenga conto?
Il mestiere pullula di tiranni grossi e piccini, come si vede ad un semplice assaggio; ad ogni piè sospinto, c’è da cascare in una trappola. Eppure, non c’è altra scelta; e, d’altra parte, c’è sempre modo, volendo, tenendo duro, di venire a patti, di concludere di volta in volta se non paci durature, giacchè una pace duratura non sarebbe dopo tutto nemmeno desiderabile, almeno armistizi e concordati non disastrosi. L’importante, in ogni caso, è di non tradire, di perseverare, per sé e per gli altri, un nocciolo interno di intransigenza irriducibile: insomma di mantenere, intatta, la fede nella propria vocazione. Vendere l’anima: ecco uno sbaglio che il pubblico vero, non quello fittizio e inesistente dei tecnici e dei datori di lavoro, non perdona mai.
(1957).
Testo tratto da: “Le parole preparate”, raccolta di saggi critici di Giorgio Bassani. Torino, 1966.
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