MORETTI, DE BOSIO E “IL TERRORISTA”

Il Cinema e la Resistenza

L’amore degli inizi
E siamo al terzo. Nanni Moretti, l’instancabile direttore del Torino film festival che ha dichiarato di aver ideato questa rassegna sulle opere prime, “L’amore degli inizi”, perché ritiene quel momento di “prima creatività” straordinario, incontra nella sala più capiente del cinema Massimo il regista Gianfranco De Bosio.

Il regista veronese, classe 1924, cosiderato uno dei grandi maestri del teatro di regia italiano, ha voluto introdurre alla platea Il terrorista, girato a Venezia nel 1963, co-sceneggiato con Luigi Squarzina e interpretato, come i due film precedenti di questa rassegna (La sfida di Francesco Rosi e Un uomo da bruciare dei fratelli Taviani) da un superlativo (e in questo caso non esageriamo) Gian Maria Volontè.

E’ la prima volta che i due autori si incontrano e subito la curiosità di immergersi in quel momento magico prende il sopravvento nei loro animi e in quelli della platea che, al termine della chiacchierata, non sazia, porrà domande al regista dell’opera vista.
Questo di De Bosio è un film molto intenso: siamo nella Venezia occupata dai tedeschi nell’inverno del 1943 e un gruppo di partigiani, comandati dall’ingegnere Renato Braschi, compie attentati ai danni degli invasori. In una prima fase gli attentati vengono giudicati necessari anche dal CLN che poi li sconfesserà. Braschi, mentre cerca di raggiungere i capi del movimento nascosti in ospedale, viene mitragliato a morte.
Immediata scatta la domanda su che effetto faccia rivedere un film che ha 44 anni. E soprattutto riascoltare quei dialoghi tra azionisti, comunisti e moderati (le tre anime della Resistenza).
De Bosio sottolinea un aspetto subito evidente a tutti in sala, cioè l’ attualità di quei discorsi: “Si facevano allora ma non sono molto cambiati, anzi forse oggi determinate situazioni nel mondo sono peggiorate. Allora c’erano gli attualisti (liberali e Democrazia Cristiana) e i comunisti che erano più pragmatici”.

“Il film ha un valore di testimonianza e anche tutti i dialoghi devono essere ascoltati con il senno di poi. Noi girammo quel film vent’anni dopo quegli avvenimenti. Dopo la guerra non avrei mai potuto raccontare in questo modo quella pagina così drammatica della mia storia personale. E’ un film che mi commuove sempre perché quello era il mio comandante. Egli lavorava come ingegnere a Padova, non a Venezia come nel film, ma come si vede nel film utopisticamente voleva un attentato al giorno: la tendenza era quella che ‘Non dovevamo dare requie al nemico’. Era un uomo valoroso, un membro del partito d’azione”.
E visti i numerosi giovani in sala viene giudicato necessario da Moretti, De Bosio e dal critico Bruno Torri che il direttore ha invitato a salire sul palco, un breve cenno storico su quello che fu il partito d’azione che nacque negli anni ‘43-‘44 dopo “Giustizia e libertà” e che si dissolse con la fine della guerra perché era la parte più giovane del partito comunista e non riuscì, finita la guerra, ad entrare profondamente nella realtà del partito (alcuni confluirono nel Partito Repubblicano, altri in quello Socialista, altri ancora in quello Comunista). Era anticlericale quindi su una linea non parallela a quella di Togliatti, segretario del Partito Comunista, che voleva un discorso più ampio e popolare e soprattutto considerava importante un rapporto con la democrazia cristiana. Però fu fondamentale nel momento della Resistenza.

De Bosio continua sottolineando: “Noi nel film abbiamo cercato di rappresentare la storia del CLN in tutte le sue sfacettature”.
E poi la Chiesa: ”C’erano tanti preti comunisti, partigiani attivi anche nelle montagne ma c’erano anche preti fascisti. Nel mio film c’è questo prete che aiuta “a modo suo”. A Padova c’era una grande comunità di gesuiti che partecipava alla Resistenza ma come ho raccontato nel film davano la loro disponibilità, ospitalità ma volevano fortissimamente restare un gruppo d’appoggio, nessuna responsabilità diretta”.
Continuando a sviscerare tutti gli aspetti di questa pellicola non si può non affrontare subito il capitolo Gian Maria Volontè e il suo rapporto con il regista. E così ancora oggi aggiungiamo un pezzetto al puzzle che sta definendo la personalità di quest’attore così controverso che abbiamo visto negli altri due film e che Moretti nota essere in tutte e tre le pellicole molto simile: “Ci sono dei suoi primi piani in chiaro-scuro molto simili e qualcosa che accomuna i personaggi, cioè la ribellione nei confronti delle ‘burocrazie’”.
De Bosio amò Volontè: “Si pensò a Salerno ma dopo il film dei fratelli Taviani (Un uomo da bruciare) la scelta fu inevitabile e ricadde su questo attore molto rigoroso (aggettivo che ritorna anche questo pomeriggio) che letta la sceneggiatura non ebbe dubbi. “Volontè entrò così profondamente nella psicologia del mio comandante, entrò nella sua pelle, a tratti mi sembra proprio di rivedere lui… Purtroppo il mio comandante venne davvero ucciso mentre stata raggiungendo i dirigenti nascosti in ospedale come nel film. Venne ucciso con San Giorgio sullo sfondo a Cà Giustinian”.

E Moretti, spinto da vero e proprio interesse, lo incalza: “Quindi hai molto amato questo personaggio, quale fu il tuo rapporto con esso?”.
E De Bosio: “Ho molto affetto per lui ma la questione morale?”. Si interroga e interroga tutti noi: “Fino a che punto aveva ragione? Non vorrei essere frainteso, personaggi come l’ingegnere erano indispensabili ma il pericolo di questa posizione? …Proprio per questo motivo ho voluto concludere il film con un giudizio etico”.
Realizzandolo a vent’anni da quegli avvenimenti ho potuto anche inserire un tipico discorso anni ’60. Il timore per il dopo (durante un incontro tra Volontè e la moglie il primo, tenendola stretta, si domanda: “Io so che tutto questo prima o dopo finirà… ma tra vent’anni ci saremo tutti fatti anestetizzare dalla pace e dal’abbondanza?”. Perché il timore del dopo c’è sempre stato. Nel caso specifico sentivamo come il discorso della resistenza fosse già storia. Questa frase è un avvertimento molto attuale e costante. Guai a farsi prendere dal quieto vivere, lì nasce il fascismo. E’ dato proprio dall’acquiscenza”.

Anche tecnicamente non è un film subito ‘catalogabile’: dopo le prime scene si ha l’impressione di trovarci in un film d’azione che poi invece diventa un film parlato con una splendida città che diventa protagonista anch’essa grazie a grandi movimenti di macchina e De Bosio, uomo di teatro, da sempre sottolinea come quella storia non potesse non essere che raccontata al cinema: “Ancora oggi ritengo che non ci siamo momenti teatrali. Per il dibattito tra i membri del CLN (altissimo cinema) mi ispirò molto a La parola ai giurati di Sidney Lumet (1957). Solo studiando quel film capii come usare la macchina da presa in un dibattito. Mi chiesero di portare questo film a teatro ma non era possibile, il dibattito e la città non si potevano ricreare nella dimensione teatrale”.
Poi Torri ricorda che in quegli anni esordirono in Italia, sotto l’onda anche della nouvelle vague francese, in tanti: Ferreri dopo i 3 film girati in Spagna, Olmi, i Taviani, Caprioli. Era facile esordire e le critiche erano buone ma i film non avevano poi grande successo al botteghino.
“Purtroppo non c’era collaborazione tra gli artisti e la produzione non incoraggiava i connubi”.
E Torri apre il capitolo produzione: Bertolucci si produsse da solo i suoi primi 2 film, Bellocchio il primo.

De Bosio invece non ebbe questi problemi: “Con la nazionalizzazione dell’energia, la Edison aveva molto denaro e lo riversò nell’associazione ‘22 dicembre’ diretta da Ermanno Olmi che produsse non solo il mio film ma anche quello di Lina Wetmuller, due dei suoi. Tullio Kezich ebbe un’importanza fondamentale nel mio progetto
(Ricordiamo che Kezich era ed è critico cinematografico del “Corriere della sera” e proprio il primo giorno di festival plaudiva, dalle pagine del giornale, a Moretti direttore ma esortava sia lui sia Benigni ”che va in giro a leggere la Divina Commedia” a tornare a fare il loro lavoro dietro la macchina da presa, a “non perdersi”). Non solo produttivamente parlando, ma anche nella scelta degli attori (nel cast Philippe Leroy, Anouk Aimèe e in una piccolissima parte anche la giovane Raffaella Carrà, studentessa del Centro sperimentale di cinematografia di Roma).
Moretti, per la sua enciclopedica conoscenza (durante la conversazione si snocciolano titoli di film, autori e non sbaglia un colpo!) ruba un applauso della platea (“Potrei partecipare ad un quiz televisivo, è solo nozionismo”) e ricorda che “da quegli uffici passarono tantissimi copioni che poi dettero origine a grandissimi film. Fellini girò anche con Pasolini ma dopo una settimana mollò”).

A conclusione le domande “di rito” poste anche agli altri registi sui film amati e i progetti pensati e mai realizzati.
De Bosio, in maniera sintetica rispetto agli autori che lo hanno preceduto, specifica: “Amai moltissimo Paisà (Rossellini), l’episodio del fiume fu fondamentale per me. Poi Le 4 giornate di Napoli di Nanni Loy (1963) anche se noi abbiamo fatto il contrario. Quello è un film d’esaltazione. Ma poi adoro Allen, Hitchcock, Kubrick… come dimenticare il capolavoro di Arancia meccanica?”.
Interviene uno spettatore: “Il generale della patria di Rossellini?”.
De Bosio: “Non l’ho amato. Era un film troppo vicino alla linea di Montanelli. Era dignitoso ma il personaggio era troppo ambiguo. Non piaceva neppure a Rossellini”.

Anche sul progetto amato e mai realizzato la risposta è chiara e immediata: “La storia di Carlo, ucciso dalla polizia negli anni ’70, ucciso di fronte al tribunale di Milano. Era una persona fragile anche sentimentalmente.
Durante le ricerche ho potuto conoscere tanti ragazzi dei gruppi universitari definiti sovversivi. E capii com’erano diversi da quello che eravamo noi negli anni ‘43-‘44… noi avevamo delle certezze, un obiettivo ben definito”.
Moretti decide di concludere l’incontro con una riflessione sul cinema d’oggi, su come anche da questo festival ormai si evinca come sia il documentario in Italia (non a caso quest’anno a Torino è stata creata una sessione sui documentari italiani: italiana.doc) il modo più diretto di parlare dell’oggi. “Quella piccola troupe ti dà una leggerezza anche simbolica, letterale e professionale. I registi non hanno la responsabilità di tante persone impegnate, di tanti migliori di euro che porta a un’autocensura. Hanno un lusso di libertà. Sono più freschi.
E siamo certi che questa riflessione verrà ‘girata’ domani a Florestano Vancini, un regista che iniziò la sua attività proprio come documentarista nei primi anni ’50 e che domani incontrerà Moretti dopo la proiezione del suo primo lungometraggio: La lunga notte del ‘43.