Tante luci e tantissima gente hanno animato l’arena di Verona lunedì 16 Luglio. In 15.000 ad affollare la suggestiva location che ha visto protagonisti gli inglesi Muse, già insigniti del premio come Migliore Band Live ai Brit Awards del 2007. Sebbene i riconoscimenti plurimi ricevuti per le loro strepitose performance live e il successo del loro tour estivo abbiano rinfrancato il loro trionfo commerciale, i Muse questa volta non convincono pienamente a Verona…
Lunedì 16 luglio alle 21:00, nonostante il caldo soffocante e l’attesa snervante, l’arena di Verona è gremita di spettatori estatici e impazienti di accogliere una delle band più in vista del panorama musicale contemporaneo. La location è davvero suggestiva, basti pensare che l’arena nel 2000 è stata inserita nell’elenco UNESCO dei siti “Patrimonio Mondiale dell’umanità”, e la sua capienza è di ben 22.000 posti. Ma la bellezza dell’arena non è in sintonia con l’enorme, e inutile, catafalco metallico che ingabbia il palcoscenico, dotato di un’illuminotecnica assolutamente superflua per dei talentuosi come i Muse, che di certo non necessitano di tali artifici per impressionare il pubblico. Dopo il check-sound l’attesa si fa davvero sentire ma ecco che alle 21:30 le luci si abbassano e lo show sta per avere inizio, anticipato da una meravigliosa “Danza dei cavalieri” tratta dal balletto “Romeo e Giulietta” (1938) del compositore russo Sergej Prokofiev, un’illustre e raffinata citazione alla tragedia shakespeariana ambientata a Verona.
I tre musicisti vengono accolti da una folla sovraeccitata e senza tanti preamboli danno inizio alla loro performance con “Knights of Cydonia”, ultimo singolo tratto dalla loro quarta fatica “Black Holes & Revelations” (2006); un incipit spettacolare più per gli effetti di luce e l’impiego massiccio di sintetizzatori che per la genuina grinta di Matthew, Chris e Dominic, scarsi anche i virtuosismi del frontman alla chitarra. Ma la folla non sembra farci caso e continua a intonare entusiasta le parole del ritornello che compaiono a caratteri cubitali sui megaschermi sovrastanti il palco, dando un effetto karaoke di dubbio gusto. L’esplosione di gioia generale per il successone appena proposto dal gruppo perdura con “Map of the problematique” e, soprattutto, con “Super massive black hole”, primo singolo del loro ultimo album che ha riscosso un enorme successo commerciale: consapevoli di questo i tre musicisti scelgono di riproporre la canzone tale e quale la traccia registrata in studio, senza modificare nemmeno un gorgheggio, e con l’utilizzo sempre più massiccio di sintetizzatori sin da renderla interamente sintetica e meccanica ma appetibile a molti degli ascoltatori di ultimo grido presenti. Maggior carisma, energia e personalità rifulge da pezzi legati a lavori precedenti, come l’energica “Hysteria” e la suggestiva “Apocalypse please” -tratte da “Absolution” (2003)- dove il frontman sembra interagire in maniera più vivace con il proprio strumento musicale, permettendosi anche di variare qualche accordo e ispessire l’esibizione con riff introvvisati, capaci di rendere la canzone sempre riconoscibile e godibile ma arricchendola di sfumatura inedite capaci di rendere l’esibizione meno prevedibile.
Ma la frenesia e il tripudio di tecnologia sanno lasciare spazio a canzoni più distese e coinvolgenti come “Butterflies & Hurricanes” e le meravigliose “Feeling good” e “Sunburn”, dove Bellamy rivela ai presenti il suo talento al pianoforte, suo strumento prediletto come ha più volte dichiarato in passato. Esibizioni impeccabili ed eleganti, forse le migliori di tutta la serata, che purtroppo non vengono apprezzate dai fan meno esigenti, i quali dalle tribune più esterne richiedono a gran voce gli ultimi successi del trio; del resto l’arena intera accoglie piuttosto freddamente “Feeling good” e soprattutto “Sunburn”, testimoniando come i gusti dei fan odierni sono indirizzati verso un altro genere di sonorità. Ma il silenzio lascia ben presto spazio alle urla nel momento in cui il cambiamento di rotta indirizza l’ascoltatore verso tracce più recenti; dopo un Invincibile eseguita egregiamente alla chitarra si ritorna al buon vecchio sintetizzatore con “Time is running out” e “Starlight”, la canzone più osannata e richiesta dai presenti. La qualità dell’esibizione torna ad abbassarsi e Bellamy distoglie la sua attenzione dallo strumento (è troppo intento a battere le mani a tempo di musica assieme al pubblico per suonare) lasciando che una fantasmagoria luci e filmati proiettati sul maxischermo –raffiguranti una schiera robotica in marcia e disastri ecologici planetari- rinforzino al posto suo la piatta performance.
Ora che i Muse hanno adempiuto al loro dovere di riproporre i loro ultimi successi possono abbandonarsi a sonorità più autentiche, rock, taglienti e impietose; finalmente si vede un po’ di sano sudore sprizzare dai corpi dei presenti, inevitabilmente travolti da quella pura energia a cui i Muse tutt’oggi cercano di rimanere attaccati con le unghie e con i denti. Solo ora quella giostra di luci colorate che sino a poco prima aveva stordito gli spettatori diventa sempre più inutile e fuori luogo.
E’ “Bliss” ha dare inizio a quella spirale di adrenalina che accompagna lo spettatore verso il finale e a rendere giustizia a un live piuttosto piatto nel complesso: nemmeno i fan più pigri rimangono seduti sulla seggiola, impressionati da quel mirabile intreccio di chitarra e basso che colpisce come una frusta, dai melodiosi accordi sciorinati con veterana maestria da un Bellamy capace e disinvolto musicalmente ma, tutto sommato, piuttosto svogliato e pigro sul palco, eccezion fatta per le sue istrioniche movenze ormai sancite da anni di esperienza. Il ritmo rallenta momentaneamente con “Soldier’s poem” e con la stupenda “Unintended”, troppo delicata e intima per un’arena dalle dimensioni sesquipedali ma la sua dolcezza discreta ammutolisce la folla che, ondeggiando accendini e cellulari, dimostra la sua compartecipazione illuminando le gradinate e alimentando l’atmosfera sognante che la chitarra acustica di Matthew e il basso di Chris riescono a creare. E’ l’ultimo momento di sosta che i Muse concedono agli spettatori prima di travolgerli con i vertiginosi virtuosismi di “New Born”, “Plug in baby” (“Origin of Simmetry”, 2001), “Stockholm Syndrome” (“Absolution”, 2003) e galopparli verso l’epilogo della serata. Una nota di merito va alla meravigliosa “New born”, al suo ritmo martellante capace di togliere il fiato anche al pubblico più esigente e critico, agli assoli di chitarra vertiginosi che eccitano una folla ormai in loro piena balia e alla voce vibrante di Bells che scuote gli animi grazie alla sua potenza ed efficacia; verso la fine dell’esecuzione i Muse regalano ai fan più affezionati un apprezzabile citazione dell’epilogo di “Pink ego box”, b-side del loro primo album “Showbiz” (1999).
Questo climax di tensione estatica viene irrimediabilmente scemato dalla scelta di porre “Take a bow”, prima traccia di “Black holes & revelations”, come ultima canzone della scaletta, ridimensionando l’energia primordiale e intestina che così faticosamente i tre britannici erano riusciti a sprigionare dal pubblico. Ecco la tecnologia da studio di registrazione che torna a farla da padrona; i suoni caustici appianati a innocui rumori sintetici tanto vuoti e ridondanti quanto la fantasmagoria di luci che mi ha abbagliato per tutto il resto della serata; gli stridii della chitarra zittiti dall’ampolloso ma velleitario tripudio di cori pre registrati e sonorità simil pop, confermando fino alla fine quell’inspiegabile quanto inutile attaccamento al synth che solo nelle giuste proporzioni non dispiace.
Playlist
Knight of Cydonia, Map of the problematique, Hysteria, Super massive black hole, Butterflies & Hurricanes, Hodoo, Apocalypse please, Feeling good, Sunburn, Invinciblie, Starlight, Time is running out, Bliss, Soldier’s poem, Unintended, New born, Plug in baby, Stockholm syndrome, Take a bow