Dopo il planetario successo che con i primi due dischi li ha portati a vendere oltre 45 milioni di copie, gli alfieri del new metal d’alta classifica, quello che occhieggia più furbamente al rap, tornano con un disco più vario e leggero, e sicuramente più vendibile, ma senza dare particolari sterzate alla ora (mediocre) vena compositiva.
Arrivati alla prova del nove, dopo aver lanciato alle masse quel nuovo modo d’intendere la musica pesante che passa sotto il nome di new metal, i Linkin park dovevano dimostrare che il progressivo accostarsi al pop e alla melodia orecchiabile fosse uno spunto in più, ma Minutes to midnight (in riferimento all’avvicinarsi della catastrofe nucleare, come fecero gli Iron maiden) dimostra invece che l’alleggerirsi delle sonorità e la linearizzazione delle strutture sono il principale difetto della band, che messi da parte i ritmi e le aggressioni, ridimensionato il coinvolgimento, non riesce a dimostrare un talento creativo che vada oltre il troppo facile rock dei nostri tempi.
Già in apertura, con Wake, sembrano dare un segnale verso un’evoluzione dei suoni, meno inquadrati e ripetitivi e più vicini a un atteggiamento punkeggiante che fa sempre piacere (come nella successiva Given up), poi però il disco comincia a prendere pieghe sempre più blande e scialbe, troppo vicino a sonorità adolescenziali che adesso piace chiamare “emo”. Così, abbondano i ritornelli melodici, la strumentazioni tecnologica, la piattezza tecnico-strumentale, le atmosfere malinconiche che non convincono se inficiate da un cantato rap, come sempre non all’altezza (anche se meno ossessivo che nei precedenti).
Canzoni come Leave out all the rest, In between o In pieces sembrano quasi la resa incondizionata al nuovo mercato che sembra fagocitarlo, viaggiando tra Avril Lavigne e Justin Timberlake, poi fanno un passo indietro cercando di ritrovare il consenso del pubblico primigenio ed ecco il primo singolo What I’ve done o On Valentine’s day che però odorano di plastica e stantio già dalle prime note; per non parlare di brani in cui le variazioni di toni e atmosfere non producono risultati che sfiorano il plagio come Shadow of the day (troppo smaccatamente U2) o The little things give you away, che ricorda da vicino i Goo goo dolls. Ed anche col secondo singolo, Bleed it out, non va meglio.
Non tutto è un fallimento, e l’accoppiata Hands held high e No more sorrow colpisce con l’alternanza tra una specie di requiem militaresco dal cantato rap e una sfuriata elettrica di cui se ne sentiva la mancanza, ma è un po’ poco per un disco che si proponeva di essere una chiave di volta, sia nella musica, sia nei testi più attenti e “politici”, e invece è semplicemente il ripiegamento ad un gusto ed un approccio alla musica che non ci sentiamo di condividere.
TRACK LIST:
1.wake
2.give up
3.leave out all the rest
4.bleed it out
5.shadow of the day
6.what i’ve done
7.hands held high
8.no more sorrow
9.valentine’s day
10.in between
11.in pieces
12.the little things give you away