Quei quattro accordi che suonavano da dio

Riflessioni e pensieri sul modo scomposto e trasandato di suonare dei Nirvana

C’è chi dice Bleach (1989), e chi Nevermind (1991). Io non l’ho mai capito quale dei due sia l’album migliore dei Nirvana. Poi c’è chi dice Incesticide (1992) o In utero (1993); francamente, però, credo che questo non conti molto, perché sono dell’idea che la loro musica si giochi tutta nei primi due album. I lavori successivi sono belli, certo, però sono rifacimenti di quelli prima. Di fatto sono uno di quelli che, a posteriori (cioè dopo l’innamoramento adolescenziale), considera morti i Nirvana da dopo Nevermind.

Era veramente da parecchio che non li ascoltavo, i Nirvana. Più o meno da quattro anni, forse anche di più. Ovviamente, al tempo mi prestarono Nevermind e me ne innamorai. Poi ascoltai gli altri dischi, e mi innamorai anche di quelli. Dopodiché, passati quei due annetti buoni di adorazione per Kurt Cobain e soci, mi stufai.

Ieri ho riascoltato i primi due dischi, per cercare di capire finalmente quali dei due preferisco. E, giuro, non ci sono riuscito. Ascoltando il primo ti pare di essere dentro un garage, di respirare l’umidità e di vedere le pareti livide e scrostate. In quattro parole: questo disco è vero. Non ha filtri, non ha compromessi. Non c’è tanto ragionamento dietro, tanto lavoro di composizione. Solo tre ragazzi (allora c’era anche un fantomatico chitarrista – che compare anche nella copertina -, ma servì più a contribuire alle spese di registrazione che altro) che imbracciano i loro strumenti, alzano i volumi al massimo e suonano. Suonano. Questo è Bleach. Grezzo, ruvido, sporco. Cupo e opprimente. Tre ragazzi di Seattle che suonano in un garage musica grunge.

Già, dimenticavo, in tutto questo Bleach è proprio grunge. Poi ascolti Nevermind, e pensi «cazzo, che potenza!». Sì, perché la prima canzone è “Smells like teen spirit”, ed è un pezzo che spinge all’inverosimile. Poi ascolti le altre, e pensi la stessa identica cosa. Percepisci però una cura maggiore nelle strutture e nella dinamica. C’è più attenzione ai suoni, ai particolari. Da atmosfere cupe e ossessive, ruvide e pesanti (ogni tanto, in Bleach, si sente anche qualche riff che sa un po’ di metal) si passa ad atmosfere più spedite e “leggere”, suoni più puliti e controllati. Permane la voce sguaiata di Kurt Cobain, ma, al posto delle schitarrate dissonanti degli esordi, subentra una melodia più accattivante e orecchiabile. In poche parole Nevermind è un disco più maturo, che però porta con sé una patina che profuma di dollari. Come dire: sono ancora i Nirvana, ma non suonano più in un garage dalle pareti umide e scrostate.

Insomma, sono due dischi veramente diversi, Bleach e Nevermind. Ciascuno con i suo pro e i suoi contro. Una cosa però non cambia: il talento compositivo di Cobain. Ovviamente, non si può certo dire che tecnicamente fosse bravo, perché in verità era impedito – e con lui anche Kris Novoselic e Dave Grohl (che ora si può considerare un buon batterista, al tempo no). Ed è pur sempre vero che le sue canzoni nascevano da quattro accordi messi assieme, girati e rigirati sempre alla stessa maniera. Però, cavolo, sono quattro accordi che suonavano da dio! Quattro accordi per “Smells like teen spirit”, quattro per “Floyd the barber”, per “Drain you”, per “About a girl”… insomma, per tutte. Però sono tutte canzoni che filano dall’inizio alla fine, e ancora adesso, a distanza di più di dieci anni, c’è gente che si ostina a volere emulare questo modo scomposto e trasandato di suonare. Perché, evidentemente, è un modo che ha lasciato il segno. Grezzo e impedito quanto si vuole, però ha lasciato il segno. Su questo non ci sono molti dubbi.

Del resto, nella storia della musica leggera, più o meno è sempre stato così. Hendrix, Beatles, Sex Pistols: senza voler paragonare gli uni agli altri, è tutta gente che ha cambiato la storia della musica non con la tecnica, ma con qualcos’altro. Non so dire cosa sia questo qualcos’altro, però è qualcosa che va al di là della musica, che nella musica trova solo la sua espressione, non la sua essenza. Chiamatelo cuore, chiamatelo genio creativo, chiamatela fortuna. Chiamatelo come vi pare. Fatto sta che, spesso, è questo che cambia le cose per sempre.