“The Crying Light” di Antony & The Johnsons

La voce struggente del dolore

In Italia, forse, sono ancora pochi a conoscerli, magari per via di un suono e di una musicalità cupe e deprimenti per il grande pubblico, forse perchè la fondamentale componente delle liriche perde qualcosa nel doppiaggio, fatto sta che il gruppo di Antony Hegarty in Italia rischia di essere conosciuto per il duetto con Elisa in “Forgiveness”.

Invece il gruppo di pop da camera, per chi scrive uno dei migliori gruppi in circolazione, merita un successo planetario e un riconoscimento che vadano nel merito di una musicalità a dir poco emozionante: ci provano con il loro terzo album, uscito a ben quattro anni di distanza dal fortunato predecessore Am a Bird Now, che ribadisce un percorso intimista e personalissimo tra il soul e il pop decadente.

Preceduto da un EP dal titolo Another World, che oltre alla title-track e primo singolo, contiene altri quattro brani tra cui si segnalano il primitivo blues di Shake that Devil, il disco segue le coordinate dei primi due album, vale a dire una straziante componente melodica retta sostanzialmente dal pianoforte e dalla voce intensissima che vola tra le ottave arrivando a profondità struggenti e a falsetti che vibrano di “tutte le emozioni del mondo” (per citare la definizione di Diamanda Galas) e che trovano come punto di riferimento la voce nera e forte di Nina Simone.

In più questo album gioca più esplicitamente con gli arrangiamenti (curati da Maxim Moston) che arricchiscono i virtuosismi, ma anche le profondità emozionali della voce di Hegarty: aperto da un brano classico come Her Eyes Are Underneath the Ground e già trascinato nella dolente leggerezza di Epilepsy Is Dancing, che diventa anche musicalmente un brano “epilettico” (Cut Me in Quadrants, Leave me in the Corner), l’album si sposa più volentieri con suoni accessibili, come in Kiss My Name, dove la voce e i cori possono raggiungere il pubblico attraverso il ritmo, oppure oscuri e sperimentali, come Dust and Water, in cui i giochi lessicali della voce sono accompagnati da archi senza melodia. Fino a giungere ai picchi commoventi tipici dell’auto-celebrazione funebre di Another World e al dolore quasi lirico della conclusiva Everglade.

Album che forse non sorprende come i precedenti due, ma solo perchè il suono della band e la gestione vocale del suo leader hanno raggiunto una maturità che non ha più il compito di lasciare senza fiato (cosa che comunque non manca di fare), ma di costruire brani che sono come delle finestre aperte su un mondo interiore che non riesce a uscire se non con l’arte.

Un disco da ricordare e riascoltare molte volte. E possibilmente da consigliare a chiunque non lo conosca.