Quello di cui si parlava nelle recensioni agli episodi precedenti, è ora ufficializzato: questa e la prossima ultima stagione della serie saranno costruite come un conto alla rovescia, in una doppia direzione, una ascendente – in cui verrà tracciata la campagna elettorale dei possibili successori di Bartlett – e una discendente – che descrive gli ultimi giorni di presidenza, il declino fisico del presidente e il modo di lasciare l’eredità migliore possibile.
Perciò in questo doppio episodio, la serie di Wells racconta tutte e due queste parabole, tracciando una doppia linea che probabilmente, d’ora in poi, saranno le alternate costanti dello show: e lo fa con due episodi a loro modo magistrali, l’uno per quanto riguarda la tenuta narrativa, l’altro per quanto riguarda la struttura.
Leo torna alla casa Bianca: il suo compito è quello di aiutare lo staff a gestire gli ultimi 365 giorni di presidenza Bartlett; nel frattempo Josh e Matt sono intenti a fare comizi in vista delle primarie, assieme all’avversario democratico Russell e a quello repubblicano Vinick. Il punto da dibattere è l’incentivo alla produzione di etanolo.
Altra coppia di bellissimi episodi, scritti da Mark Goffman e lo stesso Wells e diretti da Andrei Bernstein e Alex Graves, che separano definitivamente le storyline dentro la casa Bianca con quelle fuori, prendendo come centro un personaggio, Leo, e un orario, le 5,45 del mattino.
Infatti, nel primo episodio, il ritorno del caro McGarry è il pretesto per “un inventario” – secondo le parole dello stesso Leo – e un bilancio, ma anche per simboleggiare una presidenza che rischia di ancorarsi al passato e invece ha bisogno di proiettarsi nel futuro (bellissimo il prologo, in cui tutti, a uno a uno lo abbandonano nella stanza); nel secondo, invece, le sei meno un quarto, sono l’orario in cui tutti coloro coinvolti nella campagna delle primarie e l’episodio s’incentra sul modo di affrontare l’elettorato dell’Iowa e sul difficile rapporto per ogni candidato tra ideali e convenienza politica.
Se il primo episodio è un perfetto punto di ripartenza della stagione, con praticamente tutti gli elementi dello show al posto giusto, compresa la vena umanista e commovente (il finale con Jed che raduna tutti al discorso di Leo), il secondo è un esemplare raro, un perfetto gioiello per struttura e costruzione, divisa in blocchi (segnati dalle interruzioni pubblicitarie) ognuno dei quali condensa in 10 minuti la giornata dei candidati e dei loro addetti stampa, aperta e chiusa dal delicato e intenso rapporto spezzato tra Josh e Donna e sublimata dal confronto tra Matt e Vinick, in cui confrontano, tra comprensione e frecciate, la loro idea di politica.
In più, come valore aggiunto dell’episodio, gli straordinari dialoghi che vanno a impreziosire un lavoro di architettura narrativa notevole, e una regia mai vista nella serie, fatta di macchina a mano, montaggio nervoso, fotografia fredda e sgranata, ritmo veloce non solo nella recitazione, in linea con la vena documentaristica dell’intero episodio (quando per contro, il precedente, mantiene e accentua la sontuosità del ritmo e la lucida pianificazione del linguaggio, in onore all’anzianità dei protagonisti).
Ma più che un confronto indiretto tra John Spencer e Bradley Whitford, , il primo si trova – a una puntata di distanza – a specchiarsi in Alan Alda, avversario repubblicano che, nonostante tutto, comincia a prendersi le simpatie del pubblico, proprio mentre l’elettorato potrebbe voltargli le spalle. Anche questa è la bellezza della politica. E di The West Wing.