“URGE” DI ALESSANDRO BERGONZONI ALL’ARENA DEL SOLE

Termina in tripudio anche l'ultima replica dello spettacolo

Lo spettacolo è un trascinante one-man-show interrotto continuamente dagli applausi entusiasti degli spettatori. Una dimostrazione della potenza della risata, capace di scardinare ogni pensiero costituito. I giochi di parole di Bergonzoni non danno punti di riferimento allo spettatore che assiste quasi in trance ad uno spettacolo che ricorda un concerto di musica jazz.

Il lavoro di Bergonzoni non può lasciare indifferente lo spettatore. Da una parte per la sua arte, personalissima e originale. L’invenzione e i giochi con le parole, il gusto per il surreale, il non-sense sono così ricchi e intensi che risulta difficile trovare altri comici italiani con uno stile simile in grado di sostenere il paragone.

All’abilità nella scrittura dei testi si aggiunge l’abilità a recitarli; l’attore è quasi più bravo dell’autore; con il timbro vocale e con l’innata capacità a utilizzare i tempi comici, Bergonzoni è in grado di esaltare al meglio ogni frase dello spettacolo – merito anche, forse, delle oltre 250 repliche, che hanno permesso di prendere adeguatamente le misure del testo.

La poetica di Bergonzoni è in ogni modo spiazzante e non escusivamente comica: escludendo l’invito a “rifarsi il senno” e la proposta a creare un’etichetta specifica per i programmi televisivi che “nuocciono gravemente alla salute”, il resto dello spettacolo è caratterizzato da un consapevole ed esasperato distacco dalla realtà; le parole sono liberate da ogni “utilità terrena” per entrare in relazione l’un con l’altra attraverso le più disparate relazioni: di suono o di significato o semplicemente venendo accostate casualmente: la molecola che si crea è poi analizzata e poi di nuovo scomposta o connessa a un’altra parola.

Totalmente incapaci di prevedere la direzione dello spettacolo, completamente arresi nel tentativo di scorgere un filo logico, di saper intravvedere il disegno che sta dietro lo spettacolo, non si può far altro che assistere, annichiliti allo svolgersi dirompente degli eventi. La volontà di comprendere però non si può arrestare neppure davanti al non-sense e al surreale; e allora per comprendere questo spettacolo, estasiante, divertente, prorompente, ma come detto anche spiazzante ed estraniante, ritengo sia necessario concentrarsi sul concetto di “vastità”. La parola è ripetuta in più di un’occasione nel corso dell’opera e l’attore in più di un’occasione promette al pubblico di volerla indagare, spiegare, per poi, puntualmente interrompersi, apparentemente abbandonare il tema, cambiare il discorso; l’intero spettacolo, però, se non è la spiegazione del concetto di vastità ne è sicuramente la rappresentazione: è la messinscena allegorica dell’imprevedibilità e della complessità del cosmo, dell’infinito numero di variazioni a cui ogni elemento può essere sottoposto; e questo gioco di parole è, quindi, alla fine, pur così apparentemente lontano da ogni tipo di realtà, una forma di realismo: è un modo per mettere in scena la realtà e cioè l’infinito, la libertà sconfinata; ed è un modo di trattare le parole che segue un procedimento più assimilabile al mondo della musica piuttosto che a quello della letteratura. La capacità di saper vivere, sperimentare, ballare dentro la vastità che solo la musica riesce a esprimere.

È netta, a questo proposito la differenza che separa gli sketch, recitati a fine spettacolo, costruiti unicamente allo scopo di far ridere, seguendo cioè un registro decisamente comico, con il resto della messinscena che pur non rinunciando alla comicità, è in grado anche, come detto, di “rappresentare la vastità”. Interessante sarebbe indagare la relazione tra risata e vastità, ma non è questo il luogo.

Per approfondire:
Georges Perec, “La vita istruzione per l’uso”, BUR, 2005.
e il concetto di realismo allegorico di Benjamin ripreso da Sanguineti.