Venezia 70. Concorso
Parlare di trama, nel senso comune del termine, per i film di Tsai Ming-liang, non ha alcun senso. Cercheremo quindi di dare, per sommi capi, un’idea di quello che succede in termini narrativi, pur considerandolo un elemento secondario ai fini del film.
Taipei: padre e due figli vivono ai margini della società, racimolando giusto il necessario per sopravvivere. Poco a poco inizia a interessarsi ai bambini una commessa di un supermercato, che li prenderà sotto la sua protezione giusto in tempo per evitare che il padre li porti a fare una gita-suicidio in barca. I tre si trasferiscono quindi dalla donna, in un ipotetico tentativo di ricreare un’idea di famiglia.
Il mondo si divide in due categorie di spettatori: quelli che amano Tsai Ming-liang, e quelli che non lo sopportano: le scelte di quest’autore sono talmente drastiche, talmente anarchiche nel loro rifiuto di qualsiasi costrizione imposta dal mercato, da renderlo quantomeno ostico (per la cronaca, io non rientro nel gruppo degli estimatori sfegatati).
Fatta questa premessa, passiamo al film vero e proprio, se film si può definire: l’opera di Tsai Ming-liang esula a tal punto da ciò che viene considerato “film” nel mondo occidentale che bisognerebbe creare un altro termine per definirla. La struttura narrativa è inesistente, non c’è alcuna necessità di raccontare una storia lineare, con un inizio, un centro e una fine, e chiunque si accosti al suo cinema con l’idea di capire il perché di un’azione o di un avvenimento non potrà che rimanere deluso.
È una poetica fatta d’immagini in una sorta di flusso di coscienza senza limiti, fatta di suoni, il cantico dei clacson, il respiro degli attori, la pioggia che scroscia. Per riuscire a godere appieno delle sue opere ci si deve lasciar trasportare da ciò che si vede, e non da ciò che accade, non iperanalizzare ogni singolo fotogramma per cercare di venir a capo di un racconto che non c’è. Ci si deve lasciar portare dalle emozioni e sensazioni e certo è che anche in questa pellicola la sensazione preminente, che non si riesce a scrollarsi da dosso, è la totale e completa solitudine e l’inevitabile abbrutimento dell’uomo: non c’è nulla di consolatorio, nulla che faccia sperare in un futuro per l’umanità che non sia fatto d’incontri fugaci nei quali l’incomunicabilità ci rende impossibile però qualsiasi contatto emotivo. Nessun rapporto familiare salvifico: il padre non è la salvezza per i figli, così come la donna non può essere un rifugio per il padre.
I cani randagi del titolo sono presi da un pensiero di Laozi “Heaven and Earth do not act out of benevolence; they treat all things as stray dogs.”: le persone si comportano come cani, e i cani come le persone. Siamo tutti cani randagi, liberi ma abbandonati a noi stessi. I quasi venti minuti dell’inquadratura finale, in cui i due cosiddetti protagonisti fissano un dipinto di un mondo che non esiste più e cui non si può accedere, entrambi reagendo in maniera diversa ma ugualmente disperata – bevendo fino allo stordimento o piangendo – sono emblematici di tutto quello che la pellicola vuole (se poi è vero:Tsai Ming-liang pare faccia film senza alcun intento programmatico nei confronti dello spettatore) comunicare. Il dipinto come specchio delle rovine in cui Hsiao Kang e la donna si trovano a vivere, uno specchio che però non si potrà mai attraversare.
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Titolo originale: Jiaoyou
Nazione: Chinese Taipei
Anno: 2013
Genere: Drammatico
Durata: 138′
Regia: Tsai Ming-liang
Cast: Lee Kang Sheng, Yang Kuei Mei, Lu Yi Ching, Chen Shiang Chyi, Lee Yi Cheng, Lee Yi Chieh, Wu Jin Kai
Produzione: Homegreen Films, JBA Productions
Distribuzione: UDI Urban Distribution International
Data di uscita: Venezia 2013