Suppongo che non ci sia critico dell’opera di Giovanni Verga che manchi di accennare alla relativa sfortuna di questo grande presso il pubblico dei lettori. Ed è vero. Al contrario, per esempio, del Manzoni, il quale ha inventato e portato con sé nella tomba la formula perfetta della popolarità, il Verga, nonostante il contenuto in apparenza tanto più «progressivo» dei suoi romanzi e delle sue novelle, resta uno scrittore isolato, poco amato.
Chiuso, polemico, sdegnoso (d’uno sdegno più ombroso, meno dichiarato di quello così esplicito, ottimista, cristiano e redentore di Dante: lo sdegno senza speranza di uno che non sa perdonare…): nella epicità del Verga, che continua a far sbadigliare tante signore della nostra borghesia, è forse avvertibile, a tratti, il segno leggero di una forzatura, quasi il presentimento, da parte dello scrittore, della durata nel tempo futuro della propria solitudine di uomo e di artista.
Eppure, non si può negare che alcuni personaggi verghiani siano entrati a far parte di quello che potrebbe chiamarsi il patrimonio mitico degli italiani. Però vediamo. In fondo, se il berretto da bersagliere di compare Turiddu, la cui nappa ha fatto «il solletico al cuore» di comare Santa, anzi Santuzza, è diventato famoso; se quel mondo di vinti, di primitivi – un mondo dominato dalla miseria, dalla superstizione, dalle passioni più elementari -, può dirsi ormai generalmente acquisito: ciò accade soprattutto per tramite dell’opera di volgarizzazione, e di deformazione, compiuta da artisti contemporanei al nostro scrittore, e a lui tanto inferiori: da d’Annunzio e da Mascagni, in primo luogo. Jeli il pastore, I Malavoglia, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La lupa ecc.: per amare questi capolavori, per farseli propri, gli italiani hanno avuto il bisogno di leggerli in trascrizioni commerciali, in arrangiamenti deformanti nel senso della superficialità e della lussuria, insomma di vederseli trasferiti su un piano più modesto, più accessibile, meno «religioso».
Il nostro cinema, per fortuna, non si è occupato, o quasi, di questi bassi servisi. Cavalleria rusticana, per esempio, ebbe qualche anno fa una riduzione cinematografica nel complesso decorosa, ma, in fondo, francamente teatrale, folcloristica, e dunque tratta, se non proprio dal melodramma di Mascagni, almeno dalla pièce che il Verga stesso ricavò dalla sua novella, diluendone irreparabilmente la formidabile carica drammatica. Tuttavia, da quando i nostri registi più intelligenti hanno cominciato a orientarsi verso un’arte cinematografica che affrontasse decisamente le conseguenze di impopolarità derivanti da un ripudio dell’eredità della Segretaria privata, è evidente che l’universo fantastico dello scrittore siciliano ha rappresentato per il cinema nazionale una meta non eludibile, vorrei dire fatale.
Ho qualcosa da raccontare, in proposito. Durante la guerra, a Ferrara, mentre si svolgevano le riprese di uno dei primi film neorealistici italiani (curioso, questo buscar il levante per il ponente: questo ritorno alle fonti del naturalismo attraverso le sue estreme conseguenze decadentistiche, francesi e americane!), mi capitò di vedere tra le mani di un amico, che aveva collaborato alla sceneggiatura del film, il primo treatment di un soggetto ricavato dai Malavoglia. Sempre da quello stesso amico, in quegli stessi giorni, udii accennare ad un altro soggetto verghiano ispirato, se non sbaglio, a Jeli il pastore.
Nelle pause della lavorazione del film, regista e sceneggiatore discutevano animatamente di ciò che avevano in animo di fare. E che non tendessero a dare dei Malavoglia e di Jeli una trascrizione corriva alla leggerezza nazionale, mi fu pegno di garanzia sentirli, fra l’altro, parlare con molta intelligenza e sensibilità di «ritmo narrativo» (si proponevano di rendere, attraverso il montaggio, una specie di equivalente per immagini dell’accorata, profondamente musicale prosa del Verga), e, anche, saperli iscritti ad un partito di sinistra. Perché si, bisogna pure che lo confessi: a patto di veder rotta la crosta di falsità, di sentimentalismo folcloristico, che ha sempre impedito al nostro popolo di accogliere nella sua integrità il virile messaggio dello scrittore catanese («Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…»: ricordate l’amara conclusione della novella La libertà?, sarei stato disposto, allora non meno che oggi, a tollerare una interpretazione classista di quel puro e sconsolato capolavoro che I Malavoglia sono. Pur di vedere infrangersi contro gli scogli di una magari inventata Aci Trezza lo stesso epico mare dell’Uomo di Aran, avrei ascoltato, e ancora ascolterei con pazienza, qualche discorsonincendiario messo in bocca al giovane ‘Ntoni, vittima della società borghese…
Ad ogni modo, se i tempi sono maturi, se questo matrimonio tra Verga e il cinematografo s’ha da fare; dato che di Verga corrono due immagini, una riflessa, romanzesca, mondana (il Verga dei romanzi e dei racconti europeizzanti, borghesi, di intrattenimento, tipo Tigre reale, Storia di una capinera, ecc.), e un’altra immagine, quella «omerica»: sarà il caso di consigliare ai nostri produttori di volgersi con coraggio alla seconda. E intendo riferirmi, oltre che ai Malavoglia, e a novelle come La lupa, Jeli il pastore e La libertà, all’Amante di Gramigna: il racconto più adatto, forse, a essere tradotto in un duro, veloce, attualissimo film.
Alcune altre novelle, bellissime, sì, ma a sfondo troppo caratteristico – e quindi soggette a fraintendimenti e dispersioni nel solito senso del colore -, per ora le lascerei da parte; così come lascerei da parte, per ora, anche Mastro Don Gesualdo, troppo accentrato com’è nonostante le possibilità assai suggestive che si offrirebbero di tradurlo in una specie di Cavalcade del nostro Sud, su un solo personaggio erculeo, alla Jannings. La retorica del personaggio: sarebbe, questo, un modo per dare nuova esca all’annoso e deprimente equivoco popolare su Verga.
(1947).
Testo tratto da: “Le parole preparate”, raccolta di saggi critici di Giorgio Bassani. Torino, 1966.
Il sito ufficiale della Fondazione Giorgio Bassani: http://fondazionegiorgiobassani.it